“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso”, questo verso di John Donne sembra un’ottima descrizione di quel che fu Antonio Ligabue, un uomo solo, un uomo in perpetuo inseguimento di affetto.
Egli era infatti solito pronunciare con tutti “Dam un bès” – dammi un bacio, richiesta abituale per un bimbo ma insolita per un adulto e dalla quale si evince la sua travagliata vicenda esistenziale.
La vita di Ligabue fu costellata da abbandoni, ricoveri in manicomio, fughe e nomadismi che lo spinsero a lottare per rivendicare la propria identità. Riuscì ad essere accolto solo dopo tanto errare a Gualtieri, un piccolo borgo emiliano in cui si spense il 27 maggio del 1965. A Gualtieri, nonostante gli fosse stato attribuito l’appellativo di “el mat”, riuscì a trovare finalmente il modo di esprimersi attraverso l’arte.
Fu da subito un talento naturale, un autodidatta che crebbe grazie anche all’aiuto di Renato Mazzacurati, artista della Scuola Romana che, compresone l’estro creativo, l’avvicinò alla pittura ad olio e lo portò ad accrescerne la notorietà.
La mostra curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri, presente a Roma nelle sale del Vittoriano fino all’8 Gennaio 2017, ci narra attraverso disegni, incisioni, olii e sculture le opere di questo tormentato artista. Attraverso più di 100 lavori lo spettatore potrà così ripercorrere le visioni in cui il maestro era solito rifugiarsi per cercare di sfuggire alla crudele realtà che il mondo pareva gli avesse destinato.
Paesaggi feroci, giungle, animali esotici ma anche scene di vita semplice fatta di contadini, stradine di campagna e numerosi autoritratti, opere queste ultime in cui l’artista provava forse ad imporre la propria persona sulla terra. Un eterno vagare che lo spingeva a non fermarsi mai e a mai ottenere quella agognata fissa dimora che in nessun luogo gli riuscì di trovare, tranne che nel territorio dell’arte.
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