Una storia d’amore sussurrata, raccontata con una lentezza disarmante, struggente, eppure mai eccessiva. Guardando scendere e salire dalle scale i due amanti segreti che non si sono mai concessi al desiderio, incrociandosi appena sul corridoio angusto, verrebbe voglia di fermarlo quel tempo sospeso, cristallizzato in attimi, lievi sfioramenti, sguardi accennati. Tantissimo cibo. Condiviso in silenzio, con gesti ritmati, ripetuti all’infinito, in una linea temporale inesistente, forse per questo immortale, come la loro relazione incompiuta. Mai come nel caso di In the Mood for Love, il capolavoro di Wong Kar-wai, il cibo non solo fa parte della storia, ma ne traccia i confini, ne delimita gli spazi stretti, soffocanti, evidenziandone i colori saturi, le sfumature del rosso, del nero, la cupezza accecante di ogni scena. Una pellicola costruita su ossimori e parole non dette, dialoghi brevi, concisi e incisivi, una colonna sonora azzeccatissima – a cominciare da “Quizas Quizas Quizas” di Nat King Cole (Chissà…) – una fotografia straordinaria. E il talento indiscutibile dei due attori protagonisti, Su Li-Zhen e Tony Leung Chiu-Wai, che offrono un’interpretazione impeccabile della signora Chan e il signor Chow, vicini di casa che scoprono la storia clandestina dei loro coniugi, spesso fuori per lavoro, e si promettono di non diventare come loro.
Il cibo, i ristoranti e la tavola in In the Mood for Love
Una promessa così ambiziosa, difficile da mantenere, che portano avanti fino ad arrivare all’ultima, commovente e tormentata confessione sotto la pioggia, una delle scene più malinconiche di tutto il film. Una storia raccontata con poche parole e moltissimi gesti, soprattutto a tavola: è il cibo a parlare per loro, mostrarne i sentimenti più intimi, riservati, nascosti dalla timidezza di uno e il rigore dell’altra, custoditi gelosamente, messi a tacere di continuo. Emozioni costrette in angoli bui, scomodi, stretti come gli appartamenti dove si ritrovano a vivere, quel pianerottolo asfissiante che fa da sfondo alle loro abitudini, i vestiti colorati ed elegantissimi di lei, segreteria vestita di tutto punto, e le cravatte di lui, caporedattore nella Hong Kong dei primi anni ’60. Con il cibo si esprimono, si trovano, si toccano. Cibo sensuale, lussureggiante, ma anche rivelatore: è attorno al tavolo di un ristorante che i due hanno la conferma dei loro sospetti. La borsa della signora Chan comprata dal marito in un viaggio di lavoro, la stessa che ha anche la moglie di Chow, e la cravatta di lui, regalo della coniuge, uguale a quella del signor Chan, che sosteneva essere un dono del suo capo. Mangiano alzando lo sguardo di tanto in tanto, con movenze cadenzate, sempre uguali, che col tempo si caricano di significati più profondi.
La zuppa di sesamo e la bistecca con senape
Dalle cene più formali si passa all’intimità di casa, le inquadrature del regista sono meticolose, maniacali, si soffermano sui dettagli. Il wonton ingoiato intero da Chow, deluso dal comportamento della moglie, il fumo della sua sigaretta che lo avvolge continuamente, in ufficio ma soprattutto a tavola, scandendo il tempo tra le parole sospese dei dialoghi. Gli abiti della signora Chan, i dettagli ricchissimi, le espressioni facciali degli attori, spesso immobili eppure così dinamiche. Il cibo, dicevamo: la zuppa di sesamo, la premura della donna nei confronti dell’uomo ammalato rimasto solo, con questo forte desiderio. Ne prepara una pentola intera, riversando nel piatto le cure e l’amore represso verso il suo amato, che fino alla fine rimane un sogno lontano, impossibile. Si costringe in una parte che fatica a interpretare, sopprimendo i suoi impulsi più sinceri, soffocando i suoi desideri, ingabbiata in una routine confortevole e scomoda allo stesso tempo, beandosi di quel poco che può avere. Senza accontentarsi, ma godendosi a pieno il momento in cui si può finalmente prendersi cura di lui, fino a cominciare a recitare una parte, di nuovo al ristorante.
“Voglio sapere cosa prende tua moglie”
“E tuo marito?”
Lui ordina anche per lei, mangiano perlopiù in silenzio, tagliando minuziosamente il filetto di carne. Il signor Chow le aggiunge della senape nel piatto, la signora Chan ci intinge la bistecca, la assapora senza lasciar trasparire lo sgomento per il gusto pungente. “A tua moglie piacciono le cose piccanti”. È forse una delle citazioni più significative del film, la personificazione dell’amante nel ruolo di moglie, che si fa andar bene un sapore per lei inconsueto, ma che ora diventa passione, voglia, un qualcosa a cui tendere, da ricercare. Per sentirsi per un attimo sua, pur mantenendo la distanza dovuta, quella necessaria a non fare la stessa fine dei coniugi adulteri, la peggiore delle conclusioni secondo la sua morale ferrea. Una relazione che procede a passo lento ma mai interrotto, ovattato ma così deciso da far trattenere il fiato a ogni scena. È l’amore quieto ma profondo: tre squilli di telefono per sapere che è tornata a casa, “poi attacca”. Tre squilli, niente più.
Non c’è tempo e non c’è consequenzialità, c’è un principio e mai una fine. Neanche la scena della dichiarazione sotto la pioggia basta a fermare quell’amore trattenuto, bisbigliato.
“Non credevo che ti innamorassi di me”
“Nemmeno io lo credevo. Mi chiedevo come fosse cominciata tra loro, adesso lo so. Certe cose succedono così”.
La partenza per Singapore. Il tentativo fallito della signora Chan di ritrovarlo un anno dopo. Quel mozzicone di sigaretta sporco di rossetto che Chow ritrova nell’appartamento e ancora una cena, stavolta con un amico, che gli ricorda dell’antica usanza di confessare i segreti più intimi nel buco di un tronco. E così fa, sussurrando il suo reale desiderio nel buco dell’Angkor Wat in Cambogia, in un ultimo, straziante atto d’amore.
Michela Becchi
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