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12 Lug

Alla Fondazione Vuitton cinque artisti sfidano la pittura

Cinque artisti incontrano la pittura in una forma che la affranca dalla sua dipendenza nei confronti della tela e della bidimensionalità. Succede con la mostra La Couleur en Fugue (aperta fino al 29 agosto), alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, dove Sam GilliamKatharina Grosse, Steven Parrino, Megan Rooney, Niele Toroni aggrediscono cromaticamente i volumi eccentrici dell’edifico firmato da Frank Gehry che, da par suo, ne asseconda ritmi e vigori in un reciproco dialogo. Ognuno con un diverso vocabolario espressivo, differenti per formazione, gli artisti, convocati dai curatori Suzanne Pagé, Ludovic Delalande, Nathalie Ogé, Claire Staebler e Claudia Buizza, si muovono su un versante aniconico, arredando lo spazio con ingombri plastici o conquistando le pareti con effluvi di colori.

Megan Rooney, 
With Sun, 2022, particolare. Fondation Louis Vuitton, Paris © Megan Rooney, 2022. Photo © Fondation Louis Vuitton _ Charles Duprat

Megan Rooney, With Sun, 2022, particolare

MEGAN ROONEY E KATHARINA GROSSE

In quest’ultimo caso, si tratta d’interventi specifici sullo spazio, con la canadese Megan Rooney (1985) e la tedesca Katharina Grosse (Friburgo, 1961).
La prima, ricorrendo a un complessivo registro caldo e vibrante, trasforma l’esperienza percettiva in un’immersione nella pittura, generosamente predisposta nell’intera sala in un sedimentato e sorvegliato sovrapporsi di pennellate e sgocciolature. Rooney ci arriva dopo giorni, con un’attività che è anche performativa, abradendo la pittura raggrumata per fare emergere vaghi spunti antropomorfi e per modulare le gamme con l’aiuto dell’azione diretta della luce. La Grosse, che, in contemporanea, presenta anche un’installazione nello Spazio Vuitton a Venezia, costruisce mondi pittorici, potenti e assoluti, territori cromatici spruzzati con l’aerografo da ponteggi mobili per soggiogare e travolgere pareti, pavimenti e soffitto. Con Splinter, questo il titolo del lavoro, crea schegge per l’appunto, traghettatrici di colori squillanti, di arcobaleni lisergici esplosi in ambienti da vivere, fisicamente ed emotivamente, nel tempo effimero della mostra.

Steven Parrino Blob, (Fuckheadbubblegum), 1996. Consortium Museum, Dijon © The Steven Parrino Estate. Photo © Fondation Louis Vuitton _ Marc Domage

Steven Parrino Blob, (Fuckheadbubblegum), 1996

SAM GILLIAM E STEVEN PARRINO

Esposti per la prima volta in Francia, i Drapes, dell’americano Sam Gilliam (Tupelo, 1933 – Washington, 2022), sono una vivida testimonianza dell’astrattismo americano del secondo dopoguerra. Del resto i suoi lavori, nella mostra sospesi come inquieti teleri, sono l’esito di interventi gestuali operati con la tela a pavimento, percorsa da acrilici, che Gilliam, recentemente scomparso, provvedeva a tamponare o a strizzare per ricavarne texture e ondulazioni. Artista nero e leader dei diritti civili, sin dalla fine degli Anni Sessanta, è stato portavoce di un impegno non gridato, senza messaggi eloquenti, compressi in segni in cui il richiamo alla cronaca è spesso racchiuso nel titolo dell’opera, una semplice data coincidente con vicende fondamentali nella storia dei diritti civili.

La sfida alla natura flat della tela si risolve, per Steven Parrino (New York, 1958-2005), in una deformazione dei supporti come si vede in mostra con la produzione degli Anni Ottanta. Superfici prima dipinte e poi aggredite da un furor che le piega, le deturpa, le rompe fino ad assegnare loro un’identità plastica, spesso erroneamente accosta ai lavori di John Chamberlain che, invece, muoveva da ispirazioni proprie della Junk Art. In Parrino, la pittura, anche con vivaci cromatismi, non scompare, anzi è la fase primaria dei suoi interventi che esitano poi in volumi di impatto installativo.

Niele Toroni, Imprints of a No.50 paintbrush repeated at regular intervals of 30 cm, Flambo, 1981. Collezione privata in deposito al Musée d’art moderne et contemporain de Strasbourg. Adagp Paris, 2022 Photo © Fondation Louis Vuitton _ Marc Domage

Niele Toroni, Imprints of a No.50 paintbrush repeated at regular intervals of 30 cm, Flambo, 1981

L’ARTE DI NIELE TORONI

Rarefatto e concettuale è invece il fronte esplorato dallo svizzero Niele Toroni (Muralto, 1937) che riflette sul mezzo costringendolo a un format, reiterato in infinite varianti, secondo un processo apparentemente meccanico e anonimo. Parte da precise regole compositive, un‘impronta pittorica a intervalli regolari di 30 centimetri, una riduzione che è insieme una negazione della pittura ma anche una sua esaltazione, per esempio nei titoli tautologici e semplicemente descrittivi di quello che si vede (Impronte di pennello n. 50) e negli strumenti con cui si realizza, tele, colori, pennelli. Anche con tentativi di riportare la pittura a una referenzialità perduta in Hommage aux hirondelles (Omaggio alle rondini), stesse tele bianche ma con impronte blu, posizionate in alto ad angolo, come nidi d’uccelli o nei tondi con rosso di Bordeaux, il colore del vino.
In definitiva, con il colore in fuga, la pittura, da lunga pezza ormai, continua a sfidare il suo stesso canone, per evitare le secche di una lingua morta, rompendo limiti spaziali e guadagnando ulteriori ranghi espressivi, con risultati altalenanti che possono confermarne l’obsolescenza o consegnarla a nuove e sublimi energie.

Marilena Di Tursi

Da Artribune 

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