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28 Mag

Fabio Treves, il puma con l’armonica a bocca

Forse il risultato più considerevole a cui un artista può ambire è essere identificato con il proprio strumento di lavoro. Bernstein e Karajan con la propria bacchetta, Rubinstein e Pollini con il pianoforte, Hendrix e Clapton con la chitarra, Capa e Cartier-Bresson con la macchina fotografica. Ecco, pensando a Fabio Treves non si può non associarlo all’armonica a bocca, strumento principe del blues.

Classe 1949, musicista, operatore culturale, didatta, conduttore radiofonico, fotografo, da quasi 45 anni a capo della band che prende il suo nome, ha avuto modo di incarnare per il popolo italiano l’anima più autentica della “musica del diavolo”. Il suo motto è: “Blues alle masse!”, e molti anni fa, per metterlo scherzosamente in competizione con John Mayall (soprannominato “il Leone di Manchester”) gli è stato affibbiato quello di “Puma di Lambrate” (zona della Milano est in cui è nato). Nella sua carriera ha collaborato e suonato con un numero spropositato di artisti, italiani e internazionali; con un’esperienza così lunga abbiamo voluto incontrarlo per capire meglio il mondo del blues, come lui l’ha vissuto e altro ancora.

Fabio Treves ( foto Renzo Chiesa)

Cos’è per te il blues?

«Forse l’ha già detto qualcun altro più importante di me: “Il blues è la musica della vita”… la mia, la tua, quella degli altri. È il sottofondo musicale migliore per descrivere un’amore, una passione, un’abbandono, un viaggio, un momento di tristezza, di felicità, un inseguimento tra due automobili in un film… insomma è il sottofondo della vita. Se uno potesse fermare determinati istanti o stati d’animo, indubbiamente il blues sarebbe la colonna sonora più indicata. È una cosa unica. E infatti si dice che il blues sia la musica madre, quella che ha dato origine al jazz, al rock ‘n’ roll, al rhythm ‘n’ blues, al soul».

…E il tuo strumento: l’armonica a bocca?

«L’altra magia del blues può essere riferita al mio strumento: l’armonica. Uno strumento molto diffuso a livello mondiale. Molti bambini nella loro vita hanno avuto un’armonica in regalo. I più grandi artisti del secolo scorso, Dylan, Springsteen, i Beatles, i Rolling Stones, tutti nel primo album d’esordio hanno usato l’armonica a bocca per accompagnarsi. Perché questo strumento evoca degli stati d’animo, ma soprattutto le note dell’armonica creano delle atmosfere che spesso è difficile ricostruire con una chitarra o con altri strumenti. E poi già l’idea che il soffio parte dal dentro; mentre la chitarra la pizzichi e la comandi con una parte esterna. Negli strumenti a fiato utilizzi qualcosa che è vita: il soffio. Sentendo le note per esempio di Sonny Boy Williamson I e II, in brani che hanno più di 80 anni, percepisci sensazioni speciali che ti fanno venire la pelle d’oca. Quando io vado nelle scuole a raccontare le mie esperienze e la storia del blues e mi metto a suonare una melodia come questa [e attacca a suonare per una ventina di secondi, terminando con un glissato, che purtroppo nell’intervista non posso riprodurre, nda], vedo nelle facce e negli occhi degli studenti accendersi una luce di meraviglia».

Ripercorrendo la tua carriera di cosa vai più fiero?

«Pensandoci parecchie cose mi rendono fiero. La mia soddisfazione maggiore è quella che non ho mai accettato compromessi. Questa stupenda carriera è arrivata anche se non ho mai firmato un contratto, non ho mai frequentato le televisioni (sia private che pubbliche). I risultati però sono arrivati lo stesso: con fatica e quindi li ho assaporati con più gusto. Senza fare lo sborone, perché il mio carattere non me lo consente, sono l’unico italiano ad aver suonato due volte sul palco con Frank Zappa, ad aver registrato un disco con Mike Bloomfield, che la comunità nera del blues considera il “più nero dei musicisti bianchi”, essendo colui che ha riscoperto e portato a nuova “vita” alcuni musicisti del Delta del Mississippi ormai completamente dimenticati o morti. Tutte grandi soddisfazioni che mi fanno andare avanti, sicuramente con fatica, visto che l’anno prossimo festeggio 70 anni, ma mi tengo in forma e sono diventato vegetariano, faccio una vita regolare anche aiutato da quella santa donna di mia moglie. Se devo fare un bilancio della mia vita e della mia carriera, posso dire che mi ritengo una persona fortunata, che ha trovato una sua strada e che l’ha sempre amata senza deviare per vicoli e scorciatoie, faticando di più rispetto ad altri che hanno usufruito del boom mediatico».

Con Frank Zappa (foto Galimberti)

Musicista, fotografo, conduttore radiofonico, operatore culturale, organizzatore di eventi… ma chi è Fabio Treves?

«All’inizio per permettermi di suonare il blues, che è stata e rimane una musica non commerciale, anche se le sono stati dedicati tanti film, libri e festival, per tanti anni ho scelto la professione del fotografo, che era una mia passione. Ho iniziato a fotografare negli anni ’60. Quando andavo a fotografare Jimi Hendrix, B. B. King e altri gruppi famosi, dentro di me nasceva la passione per la musica. Fotografavo ma già mi immaginavo su un palco, a suonare la musica che amavo. Così per tanti e tanti anni ho anche insegnato fotografia, trasmettendo sia la passione per la musica che quella per l’immagine. Spesso andavo ai concerti insieme ai miei studenti. Diciamo che la fotografia non mi ha mai abbandonato. L’altra mia grande passione, nata dalla voglia di voler divulgare il blues, è stata quella della radio. Ho iniziato nel 1975 a Radio Popolare a Milano, poi ho fatto 16 anni a Rock FM e successivamente 17 anni a LifeGate, proprio per continuare quest’opera di divulgazione del blues, che fa parte del mio essere musicista. A me non piace fare il primo della classe, ma quello che so e che ho mi piace metterlo a disposizione della gente. Quindi certi album, certi vinili, certi aneddoti e certi racconti voglio condividerli con gli ascoltatori. E in effetti questo interesse è confermato dal fatto che sia quando insegnavo che ora che vado nelle scuole, tutti rimangono a bocca aperta a sentire parlare di Led Zeppelin, Deep Purple, Who, Muddy Waters o B. B. King. In fondo negli anni sono rimasto lo stesso. Forse ho cambiato un po’ lo stile di vita, diventando vegetariano, ma quello che ero allora lo sono tutt’oggi».

A proposito della tua vita da fotografo, mi hanno raccontato di quando la tua auto è bruciata sotto la Statale di Milano…

«Era il giugno del 1972. Me lo ricordo bene: il 16 giugno 1972. Non posso dimenticarlo. Improvvidamente avevo parcheggiato la macchina davanti all’entrata in via Festa del Perdono, con dentro tutta la mia attrezzatura fotografica. Arrivò la polizia e ci furono degli scontri con gli studenti e la mia macchina prese fuoco. Fu uno dei giorni più infelici della mia vita; ma ho superato anche quello, mi sono ricomprato macchine fotografiche e obiettivi».

Prendendo spunto da questo, a 50 anni dal ’68, per te cosa è rimasto della stagione delle contestazioni?

«Ti rispondo magari sconvolgendoti: per me il ’68, ancora prima del discorso politico è stata una rivoluzione musicale. Per me quell’anno è il 23 maggio quando un giovane Fabio Treves andava al Piper di Milano per vedere il suo idolo Jimi Hendrix. Che casualmente è nato proprio il mio stesso giorno: il 27 novembre [di 7 anni prima, nda]. Mi puoi chiedere cosa centra? Ma io alla casualità non ci credo, e sono contento di essere legato, forse anche solo per la data di nascita, a un grande musicista blues. Anche se quasi mai Hendrix viene identificato con questo genere. Per me era un musicista avanti 30 anni sugli altri. Ma tornando alla domanda, per me il ’68 è stato Radio Luxembourg. Ascoltavo tutte le notti le trasmissioni per poter registrare sul mio Gelosino a nastro le canzoni che in Italia sarebbero arrivate molto dopo. Vedo più il ’68 come un cambiamento… something in the air… qualcosa nell’aria che ti faceva sperare in un mutamento nei costumi, nelle mode, ma anche sociale e politico. Purtroppo devo dire che successivamente ha preso una piega più politica che non sociale. Molto probabilmente se si fosse seguito il grosso cambiamento nella musica e nei costumi, questo avrebbe portato di conseguenza un cambiamento nella politica».

Pensi che non si sia seguito questo cambiamento che la musica tracciava.

«Le idee, i valori le aspettative, e le voglie di cambiamento del ’68, non dico che sono andate disperse, ma solo in parte sono state realizzate. Si prenda come esempio i costumi. Lo si può vedere dalle fotografie di quell’epoca: quando io frequentavo il quarto ginnasio al Carducci le ragazze si vestivano con il grembiule nero, ora possono andare vestite come vogliono. Per quanto riguarda l’ambiente sono stati fatti molti passi in avanti: le energie alternative, la mobilità sostenibile; tutti discorsi che non esistevano in quegli anni, ma che sono figli di quelle idee».

Il ’77 ha portato un’altra ondata di contestazione, che è stata vissuta in modo diverso?

«Sì. Ma ti porto a fare questa analogia. Come la fine degli anni ’60 sono stati fondamentali per aver dato origine e portato alla ribalta degli artisti che fanno parte della storia, quella con la S maiuscola… parlo dei gruppi inglesi, californiani, di Woodstock, dell’Isola di Wight, e hanno sfornato una musica irripetibile e meravigliosa, il ’77 ha rappresentato con la musica la nevrosi, la violenza. Pensiamo al punk, che io non ho mai sopportato come il mio amico Battiato: quella non è una musica rilassante; esprime violenza, sia verbale che fisica. Un modo diverso di porsi di fronte al presente e al futuro. Poi io sono sempre stato molto attratto dal movimento pacifista, i figli dei fiori, la California… il peace and love. Io da sempre sono stato seguace di certi gruppi come i Canned Heat, band in cui militava Alan Wilson che combatteva per la salvaguardia delle sequoie».

Tornando alle tue esperienze musicali. Tu hai suonato con tantissimi artisti italiani e stranieri, un musicista con cui non hai suonato o avresti voluto farlo…

«Partendo dal fatto che sono felice di aver potuto metter la mia armonica al servizio di artisti e colleghi musicisti che normalmente non suonano blues, e questo mi ha fatto piacere perché lo trovo un grosso atto di stima nei miei confronti. Questo vuol dire che hanno pensato chiamandolo, che Treves con la sua armonica riesce a entrare nel pezzo, riuscendo a creare un’atmosfera che magari un altro strumento non riesce a fare. Parlo di Cocciante, Mina, Celentano, il mio amico Bertoli, e molti altri. E poi ci sono i miei amici “blues brothers” che mi hanno chiamato, come Finardi, ma anche Jay Ax, Grignani. Un italiano con cui mi sarebbe piaciuto collaborare, anche perché era un mio amico, è Enzo Jannacci. Amante del rock e del blues: una persona che mi manca tutti i giorni. Un altro è Fabrizio De André. Per esempio nel suo brano “Quello che non ho” all’armonica c’è un altro mio caro amico Andy J. Forest. E sono contento che quella collaborazione l’abbia fatta lui perché è un musicista, e amico, che stimo molto. Ma ce ne sono tanti altri… Se tu mi chiedessi “Ti piacerebbe metter la tua armonica in un pezzo di Vasco Rossi”, io ti risponderei “Sì”. Anche perché Vasco lo conosco da tanti anni e della sua “famiglia artistica” fanno parte due miei amici: Maurizio Solieri e Stef Burns, che sono due chitarristi di estrazione blues rock. Un altro che in molte interviste ha dichiarato che gli piacerebbe suonare blues è Eros Ramazzotti».

Ma anche Alex Britti è un grande chitarrista blues.

«Certamente. Lui da ragazzo è sempre venuto ad ascoltare la Treves Blues Band quando eravamo in concerto a Roma. È un grandissimo artista, che ha suonato una ventina d’anni fa durante il tour di B. B. King. E gli ho sempre detto che io sono a sua disposizione se mi volesse in un suo brano… perché: se Alex chiama, il Puma risponde. Ma tra quelli con cui ho collaborato non posso dimenticare Angelo Branduardi, che mi ha chiamato in diversi suoi album. Dandomi l’occasione di suonare in un brano in cui era presente il leggendario Jorma Kaukonen. Ma ce ne sono una carrellata di musicisti stranieri con cui avrei voluto suonare… uno è Billy Gibbons [cantante e chitarrista dei ZZ Top, nda] con cui suonerò il prossimo 16 luglio durante un concerto di una superband blues al Carroponte di Sesto San Giovanni. Ma pensandoci ho avuto anche la fortuna di avere ospite in due miei cd Chuck Levell, ex tastierista della Alman Brothers Band, e che da 25 anni è il pianista fisso in tour dei Rolling Stones. Piccole e grandi soddisfazioni me le sono tolte, ma non sono uno che va alla ricerca di colpi grossi. Per me quando incontro una persona che suona il blues, al 90% è una persona perbene. Poi purtroppo in Italia c’è ancora molta rivalità e invidia. Dimenticando che l’invidia è l’arte degli incapaci, e quindi è meglio mettersi a studiare e suonare, fare progetti propri. Questo vuole essere il mio esempio e insegnamento ai giovani. Non guardate quello che fanno gli altri, suonate come volete, con la libertà che il blues ha sempre espresso. Suonate anche per quelle situazioni che hanno bisogno della vostra musica. Io mi faccio vanto di aver suonato per tanti anni nelle case di riposo, nelle carceri, negli ospedali; dovunque la musica non arrivasse mai. Ogni volta che vedo un gruppo giovane che si lamenta, gli dico: cominciate a suonare nei posti dove sicuramente non vi pagano, ma dove potete portare un’ora di felicità e spensieratezza. E devo dire che questi insegnamenti spesso vengono accolti, e mi fa piacere».

Treves Bues Band, Roma, 16 luglio 2016

Sono quasi 45 anni della Treves Blues Band, ci puoi segnalare brevemente un’artista per ogni decennio con cui hai collaborato?

«Gli anni ’70 li lego a un mio mito e idolo e un “padre” per molti: Alexis Korner. L’ho conosciuto insieme al compianto Guido Toffoletti. Ma anche l’apertura al Vigorelli di Milano del concerto di Peter Tosh, le congratulazioni che Charlie Mingus mi fece nel 1977. Per gli anni ’80 quando a Pistoia ho incontrato Paul Jones, Pino Daniele e B. B. King nella stessa edizione del festival blues che si tiene nella città toscana. Tre personaggi diversi tra di loro, ma tutti e tre miti. Ecco anche con Pino mi sarebbe piaciuto suonare un bel “bluesettone”. Di questo decennio ricordo pure le trasmissioni fatte con Renzo Arbore. Negli anni ’90 l’episodio che più mi ha fatto piacere è la partecipazione al festival blues di Memphis, dove ho calcato lo stesso palco di James Cotton, Kim Wilson, Johnny Winter e i Thunderbirds. È stata un’esperienza da sogno, da favola Poi passiamo agli anni 2000, dove posso ricordare il disco con Chuck Leavell, e quello con Willy DeVille. Dal 2010 a oggi ovviamente il tour con i Deep Purple e l’apertura del concerto romano di Springsteen; con cui ho avuto il piacere di scambiare la reciproca stima. Un giornalista mi ha chiesto a proposito di quell’evento: “Ma come è stato vedere Bruce Springsteen, toccarlo, abbracciarlo e suonare di fronte al suo pubblico?”. Gli ho risposto: “È stato come fare un gol a San Siro su assist di Gianni Rivera”».

Cosa non hai realizzato e che ti sarebbe piaciuto fare… un sogno che non hai realizzato?

«A costo di sembrarti più stupido di quello che sono: mi sarebbe piaciuto fare l’inno del Milan. Un inno con una bella sezione fiati. Una musica alla Blues Brothers… È rimasto, e sono sicuro che rimarrà un bel sogno nel cassetto».

 

(In copertina, Treves Blues Band al Circo Massimo, foto di Gianni Ruggiero)

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