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5 Lug

Lambrusco, vino dalle mille anime

Mario Soldati lo chiamava “l’umile Champagne”. E con il nobile parente d’Oltralpe questo rosso corposo condivide le bollicine e la capacità di mettere allegria con i suoi tanti volti. Che sono molti più di quanti immaginiamo

Il colore rosso, la spuma che lo rende irresistibile, la dolcezza. L’idea che tutti noi abbiamo del Lambrusco è chiara e definita. E un po’ stereotipata. In realtà quello del Lambrusco è un mondo molto più complesso di quanto pensiamo. Vendutissimo, amatissimo, è stato troppo spesso e troppo a lungo svilito da un’immagine di vino facile, più simile a una bibita gasata che a un prodotto da degustare con attenzione e da conoscere in profondità. In realtà, la complessità di questo vino nasce già a partire dal nome, che si riferisce a una pluralità di tipologie. Tra queste le principali sono il Sorbara, il Grasparossa, il Salamino, il Marani, il Maestri, il Montericco, il Groppello Ruberti e l’Ancellotta. E nasce da una pluralità di territori, che abbracciano la collina, l’alta e la bassa pianura, le terre segnate dal fluire del Po: Modena, Reggio Emilia, Parma, Mantova sono le “case” del Lambrusco, ognuna con le sue tradizioni e la sua identità.

Anima padana
Un rosso con le bolle non è una cosa comune: se si guarda nel resto d’Italia, o d’Europa, sono pochi i vini a poter vantare questa caratteristica. Eppure questa nella Valle del Po è la normalità, non solo per il Lambrusco, ma anche per altri vini, come il Barbera o il Gutturnio. La ragione è nel clima e nella tradizione contadina. «Un tempo l’uva veniva raccolta tra settembre e ottobre. Era l’ultimo dei lavori che venivano effettuati in campagna, e l’ultima tra le preoccupazioni economiche di chi nei campi ci lavorava». Così racconta Massimiliano Ferrari, brand manager di Barbaterre, piccola azienda biologica del Reggiano: «Il lambrusco veniva portato in cantina, ma il freddo interrompeva la fermentazione; si imbottigliava il vino e a primavera con il caldo la fermentazione riprendeva, ma nel contenitore tappato. Il risultato era un vino frizzante, ma non c’era volontà di farlo così».

Inverni freddi e estati calde, dunque: questo c’è alla base di un prodotto che trova nell’effervescenza il suo tratto distintivo. C’è chi ottiene questo risultato grazie al metodo Martinotti, chi produce con il metodo classico, e chi segue la tradizione, usando il metodo “ancestrale”. «Noi – spiega Ferrari – usiamo il metodo classico o il metodo ancestrale. Sono i due estremi dello specchio: nel primo caso si ottengono bollicine più fini e un vino più snello ed elegante. Nel secondo abbiamo un Lambrusco più ruspante, in cui predomina il tratto selvatico. Ma non bisogna fraintendere: non è vero che i vini prodotti con metodo ancestrale vanno bevuti subito, anzi, con qualche anno sulle spalle diventano molto piacevoli, perdono la scorza rustica e acquistano complessità».

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