Se le bolle sono il tratto distintivo e l’anima del Lambrusco, sono i suoli e le uve a tracciare le differenze. Così si può imparare che il vino di collina è più ricercato di quello di pianura. Ma non basta. Occorre conoscere la geografia della pianura padana: l’alta pianura, più distante dal corso del fiume, formata dai detriti più grossolani trascinati dagli affluenti del Po, presenta suoli ghiaiosi e permeabili; la bassa, lungo il letto del fiume, ha suoli argillosi e impermeabili, dovuti ai detriti più fini. E in generale i vini che nascono da uve coltivate sui terreni argillosi della bassa sono più densi e cupi, proprio perché l’acqua ristagna, mentre dai terreni ghiaiosi nascono vini più fini ed eleganti.
L’incontro di territori e vitigni diversi segna le caratteristiche delle diverse regioni del Lambrusco: «Così nel Modenese si hanno prodotti più profumati e dall’acidità più aggressiva, nel Reggiano si hanno vini più bilanciati, mentre i lambruschi di Parma sono più dolci e scuri, e quelli di Mantova sono più grossi, con tannini più forti dati dai terreni argillosi». A tracciare questa geografia del Lambrusco è Paola Rinaldini, dell’azienda agricola
Moro Rinaldini. Una semplificazione, certo, ma che è utile a tracciare dei confini in un mondo estremamente complesso: «Il Lambrusco è una delle uve più duttili del mondo, dà vita a rossi, bianchi e rosati, può essere lavorato con il metodo classico o con il Martinotti. Così versatile c’è solo il Pinot nero».
Tra Modena e Reggio
Nelle terre di Modena e Reggio esiste un nuovo organismo di tutela, operativo dal 1 gennaio 2021 e nato dalla fusione del Consorzio Tutela del Lambrusco di Modena, del Consorzio per la Tutela e la Promozione dei Vini DOP Reggiano e Colli di Scandiano e Canossa e del Consorzio di Tutela Vini del Reno D.O.C. Si tratta del Consorzio Tutela Lambrusco, e il suo obiettivo è «unire le imprese vinicole della Provincia di Modena e della Provincia di Reggio Emilia per condividere, con impegno e determinazione, la promozione, la tutela, la vigilanza e l’informazione ai consumatori in riferimento alle denominazioni di origine geografica che hanno consolidato il successo e la fama del Lambrusco nel mondo». Così Claudio Biondi, presidente del Consorzio, che rappresenta otto denominazioni: Lambrusco DOC, Lambrusco di Sorbara DOC, Lambrusco Grasparossa di Castelvetro DOC, Lambrusco Salamino di Santa Croce DOC, Reggiano DOC, Colli di Scandiano e di Canossa DOC, a cui si aggiungono due disciplinari storici della zona, la DOP Reno e l’IGP Bianco di Castelfranco Emilia.
Vigneti Barbaterre
«I vitigni storicamente coltivati nella zona di Modena», spiega ancora Biondi, «si sono concentrati in determinati territori in riferimento alla loro vocazionalità. Basti pensare al vitigno Lambrusco Grasparossa nella zona collinare, al Sorbara nelle aree adiacenti ai fiumi Secchia e Panaro e al Lambrusco Salamino nelle zone più pianeggianti. Nella zona di Reggio invece, oltre ai vitigni sopra citati, i lambruschi vengono caratterizzati anche dalla presenza del vitigno a bacca nera Ancellotta, che dà il caratteristico colore scuro. La storia ha portato quindi a individuare in ogni territorio il vitigno a lui più vocato, che dà al vino finale caratteristiche organolettiche uniche. Tra i vitigni sopra descritti, a esclusione del Sorbara, il vino Lambrusco ha la massima espressione nella tipologia frizzante, mentre per il vitigno Lambrusco di Sorbara, negli ultimi anni, la massima espressione viene individuata nella tipologia spumante».
Del resto, il Lambrusco ha attraversato le epoche tra mode e cambiamenti del gusto, passando da vino locale a prodotto italiano simbolo all’estero, e ancora da “vinello” considerato poco più di una bibita a eccellenza la cui qualità va riscoperta e tutelata. E, se le origini della lavorazione del vitigno vanno ricercate, con ogni probabilità, in epoca romana, la storia del Lambrusco come lo conosciamo è molto più recente. A ripercorrerla ci aiuta Tommaso Chiarli, responsabile della comunicazione del
Gruppo Chiarli.
La storia della sua azienda, la più antica azienda vinicola dell’Emilia, ripercorre quella del Lambrusco: «La nostra storia inizia nel 1860. Il Lambrusco era il vino più consumato in zona, la gente del posto lo produceva in casa, per il proprio consumo. Siamo stati i primi a creare un mercato, a imbottigliare e a commercializzare un vino frizzante giovane. E il successo è stato immediato, con una grande risposta anche all’estero: tanto che già nel 1900 il nostro Lambrusco, presentato all’Expo di Parigi, è stato premiato. Esportavamo già milioni di bottiglie, prodotte con il metodo tradizionale. La rivoluzione c’è stata negli anni Cinquanta, quando è nata la tecnologia Charmat. E poi con l’avvento, fondamentale, della refrigerazione, tutto è diventato più semplice e più sicuro: la fermentazione avveniva fuori dalla bottiglia, e non si rendeva necessario lo stoccaggio di tante bottiglie, con il conseguente rischio di rotture. Ancora, la possibilità di controllare temperatura e pressione ha reso tutto più preciso, consentendo una maggiore produzione. Tra gli anni Sessanta e Settanta il Lambrusco invade i mercati americani e nordeuropei. Poi è la GDO a lanciare il Lambrusco in Italia, che è tuttora il vino più venduto nel nostro Paese. Ma la volontà di espandersi in mercati come quello inglese o quello statunitense ha portato a un calo della qualità: si facevano fermentazioni velocissime e si lasciavano i prodotti non finiti, vendendo quello che non era ancora vino, ma solo mosto parzialmente fermentato, sfruttando le leggi di Paesi che consentivano questa procedura. Il rovescio della medaglia fu inevitabilmente un’immagine negativa che rimase attaccata al Lambrusco. E negli anni Novanta la domanda crolla. Chiarli a metà di quel decennio ha deciso di cercare di rivitalizzare l’azienda agricola: l’uva prodotta veniva portata alla cantina sociale; abbiamo allora stravolto l’azienda, creando una culla dove vinificare le nostre uve per fare un prodotto di qualità. Solo Lambrusco DOC, monovarietale, prodotto in un unico sito, a Castelvetro, con l’idea di recuperare per le fasce alte di consumo il Lambrusco originale, quello vero, che era ormai sparito anche dalla ristorazione. E dagli anni 2000 a Modena abbiamo seguito il processo inverso: partendo da una base media, proporre prodotti di fascia medio alta a marchio Chiarli, da posizionare nella GDO. E in quell’epoca i lambruschi presenti nell’alta ristorazione erano ancora pochi. Ma l’inversione di tendenza è arrivata, e si è fatta sentire. La qualità è cresciuta, non solo per noi ma anche per le piccole aziende del territorio che lavorano nell’ambito della DOC. E sono arrivati i riconoscimenti».
Un’attenzione alla qualità che è bandiera per Paola Rinaldini, che sottolinea: «il Lambrusco è un vino altamente industrializzato. C’è una standardizzazione parziale nelle bottiglie più vendute, una produzione di massa che porta comunque a sostenere un territorio che vive di questo lavoro. E che porta al consumatore un prodotto buono, sicuro, che avvicina la gente al vino in modo facile e diretto. Ma ci sono bottiglie diverse e prezzi diversi». E si ritorna al tema della varietà: «La stessa uva a seconda del territorio cambia espressione. La qualità si inizia a realizzarla in vigna, con una produzione più ridotta, e si continua a perseguirla in cantina. Senza dimenticare le tipologie: il Lambrusco non è come il Brunello, che ha un’identità forte e assoluta. Il Lambrusco si identifica nella giovialità, nella simpatia, nella capacità di riflettere il territorio e sposarsi con la sua cucina. E si suddivide in tante anime».
Parma e Mantova
Ma il Lambrusco non è solo quello di Modena e di Reggio. Ancora in Emilia il Lambrusco è il vino simbolo di Parma. Qui si produce Lambrusco nell’ambito della DOC Colli di Parma, prodotto a partire dal vitigno Maestri, frizzante profumato, dal colore rubino. «Ma la produzione della Doc è limitata quantitativamente a poche bottiglie», spiega Elisa Maghenzani, proprietaria di Cantine Ceci, che dal 1938 produce Lambrusco di qualità nella Bassa Parmense. «La maggior parte dei produttori opera nell’ambito dell’IGT Emilia. E così facciamo anche noi. È il Lambrusco della nostra tradizione, quello che si beve ancora oggi nelle case e nelle osterie: il Maestri dà vita a un vino molto scuro, molto tannico, e quando usiamo questo tipo di uva lasciamo un certo residuo zuccherino proprio per compensare la durezza dei tannini e per ottenere un vino equilibrato. Noi ci richiamiamo alla tradizione del nostro territorio: in questo senso il prodotto più rappresentativo è Otello Nerodilambrusco, il vino che porta il nome di mio nonno, che nel 1938 ha fondato l’azienda. Ci caratterizza il suo stesso spirito visionario che, in questa storia durata 80 anni, ci ha permesso di arrivare attraverso una filosofia innovativa a donare al nostro Lambrusco un’immagine unica e qualitativamente elevata che ha fatto conoscere e amare questo vino meraviglioso in ogni parte del mondo».
Maldini
E il legame tra Parma e il Lambrusco è indiscutibile, visibile innanzitutto sulle tavole, dove il vino si accompagna a salumi e torta fritta, anche se gli abbinamenti cui si presta possono diventare ben più ampi, spaziando dai piatti saporiti della cucina locali alle carni, bianche e rosse, fino ai pesci e ai risotti. Anche in questo caso, dunque, la parola d’ordine è versatilità. Una versatilità che porta il Lambrusco a varcare il confine e ad arrivare in Lombardia, a cavallo tra le due sponde del Po: il Lambrusco Mantovano non deve assolutamente essere considerato un vino di serie B. Anzi.
Come per tutti i vini, la qualità è frutto del lavoro. «Tutto dipende da come si lavora, soprattutto in vigna, da che uva si pianta, da quanto si vuole produrre, e poi dal lavoro in cantina». A parlare è Franco Accorsi, al timone di Fondo Bozzole, azienda biologica dell’Oltrepò mantovano. «Il Lambrusco Mantovano», continua Accorsi, «è un vino che negli ultimi 15 anni viene realizzato con più cura. Ci sono molte cantine giovani che si sono staccate dalle cantine sociali e hanno iniziato a lavorare con una filosofia diversa, sia per quanto riguarda la resa in chilogrammi per pianta sia, di conseguenza, per quanto riguarda la qualità. Noi siamo stati i primi a usare il guyot, un sistema di coltivazione della vite usato per i vini di qualità. E siamo stati apripista anche per tornare a fare il Lambrusco secco, diverso dai quei vini dolcissimi che vendevano tanto qualche anno fa. Siamo tornati al sapore della tradizione, al vino di una volta, ma cerchiamo di farlo meno sgarbato. Il Lambrusco Mantovano, scuro e denso, nasce dal Lambrusco Ruberti, anche se noi usiamo anche il Salamino e il Marani, soprattutto per produrre rosati. I vini nati dal Ruberti sono strutturati, e sono adatti a piatti strutturati, molto diversi dal classico Sorbara modenese».
In conclusione: Lambrusco è un singolare da declinare al plurale. Una identità di spirito che trova espressioni diverse nei luoghi e nelle tradizioni. Un arcobaleno di sfumature che vanno dal rosa al rosso cupo, di consistenze che vanno dalla più fine alla più densa. Ma senza mai perdere la vocazione di vino capace sempre di strappare un sorriso a chi lo assaggia.
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