TOP
31 Dic

Stefan Milenkovich, la lezione morale della musica

Sguardo vivace, portamento elegante, temperamento brillante. È Stefan Milenkovich, violinista di origine serba, classe 1977, un vero e proprio virtuoso del violino “di nuova generazione”. Artista eclettico, vive alcuni anni da bambino in Italia, in fuga dalla guerra nella ex-Iugoslavia. Un’infanzia da enfant prodige, ora si divide tra gli Stati Uniti e l’Europa, nella molteplice veste di solista, camerista e docente. Vincitore di alcuni dei primi premi delle maggiori competizioni violinistiche internazionali tra cui il Regina Elisabetta, in Belgio, il Tibor Varga, in Svizzera, il Paganini, in Italia. Si esibisce da solista con alcune tra le più rilevanti compagini orchestrali a livello internazionale tra cui l’Orchestra Sinfonica di Berlino, l’Orchestra di Stato di San Pietroburgo, l’Orchestra di Radio-France, l’Orchestra Nazionale del Belgio, la Filarmonica di Belgrado, l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, la New York Chamber Symphony Orchestra, la Chicago Symphony Orchestra e collabora con direttori del calibro di Lorin Maazel, Daniel Oren, Lu Jia e Sir Neville Marriner. Impegnato in cause umanitarie, nel 2003 gli è stato attribuito a Belgrado il riconoscimento “Most Human Person”. Apprezzato didatta, dal 2002 è stato assistente di Itzhak Perlman alla Juilliard School di New York, prima di accettare l’attuale incarico di professore di Violino all’Università dell’Illinois. In occasione degli ultimi impegni da solista nel nostro Paese, lo incontriamo per domandargli di sé, del violino e della sua vita in musica.

Il suo incontro con la musica classica e con il violino in particolare?

«È avvenuto grazie ai miei genitori, entrambi musicisti. Ho da sempre respirato musica in casa. A tre anni ho cominciato con il pianoforte – mia madre era pianista – ma è stato poi il violino, il giocattolo che ho ritenuto più interessante e affascinante. Lo incontrai grazie a mio padre violinista, con cui ho continuato poi a studiare per 15 anni».

Violinista di origine serba vive, in fuga dalla guerra nella ex-Iugoslavia, alcuni anni da bambino in Italia: quanto le sue origini e l’esperienza di quel periodo hanno influenzato il suo approccio alla musica?

«L’esperienza della crisi, così come la cecità delle persone e dei Paesi che inevitabilmente portano alla guerra, ha influito certamente sulla mia vita privata e sulla mia carriera. Mi ha formato come persona e musicista. Si è trattato di un’esperienza dolorosa che però ha influito positivamente sul mio sviluppo. Poiché sono accadute cose che, se non fossimo stati costretti alla fuga, non sarebbero probabilmente mai accadute. Mi riferisco in particolare a diverse competizioni a cui ho partecipato perché costretto ad una svolta nella carriera, che mi hanno permesso di esprimere tenacia, volontà di essere risoluti, etica nel suonare e disciplina. Una sorta di lotta per la sopravvivenza, perché in certi momenti difficili fare bene le cose era l’unica scelta. Anche un comportamento corretto con le persone e l’avere una mente aperta è stato molto utile. Tutto questo ha contribuito al mio sviluppo, e a farmi comprendere quanto sia importante non smettere mai di imparare e voler sempre migliorare».

Un’infanzia da enfant prodige, la sua. Un sacrificio a cui guarda con malinconia o che riconosce oggi come la possibilità di acquistare una marcia in più?

«A dire il vero considero quel passato come un bel film che ricordo con simpatia e un pizzico di malinconia, ma non so quanto sia stato determinante per ciò che ho fatto dopo. Iniziare da piccolo mi ha aiutato, ma a 16/17 anni ho dovuto ricominciare e triplicato l’impegno nello studio. Ho partecipato a grandi concorsi e si è trattato di una fase completamente nuova rispetto alla precedente; sono diventato in un certo senso un’altra persona, ho costruito su quel che avevo fatto prima ma in modo molto diverso. Non so se si sia trattato di una marcia in più ma sicuramente è un bel ricordo e non penso di avere perso nulla della mia vita da bimbo. Sono stati anni ricchi di tanti concerti e belle esperienze».

Il suo rapporto con l’Italia, Paese in cui si esibisce con frequenza? 

«Mio nonno era italiano, Armando Cainazzo, il padre di mia madre Lidia. L’Italia è il primo paese in cui ho suonato e una gran parte della mia famiglia vive qui. Il Paese in cui da subito ho suonato di più e questo avviene ancora oggi. Lo considero un Paese di contrasti in tanti sensi ma questo mi piace e ogni volta mi ci sento a casa. Poi, sarei anche italiano, ho il passaporto italiano».

Vincitore di alcuni dei primi premi delle maggiori competizioni violinistiche internazionali tra cui il Regina Elisabetta, in Belgio, il Tibor Varga, in Svizzera, il Paganini, in Italia: quanto pensa influisca la vincita di Concorsi internazionali oggi nella “costruzione” di una carriera?

«Penso che i concorsi influiscano sulla carriera e tirino fuori una sorta di “spirito guerriero musicale”. Costituiscono esperienze forti, consentono di incrementare il proprio repertorio e spingono verso l’eccellenza. Quanto al vincere, no non credo che possa garantire la carriera, perché solo un processo, non una destinazione può garantirla. Oggi più che in passato partecipare ad un concorso dà la possibilità di esporsi per le dirette streaming dei concorrenti e delle tappe delle competizioni. Così, indipendentemente dal risultato, si acquista visibilità per i tanti interessati – tra cui organizzatori, manager e case discografiche – che possono sentire e fare le loro scelte. Ecco, direi che si tratta di piattaforme utili per i giovani per esibirsi e mettersi alla prova davanti al pubblico».

La bellezza del suono di David Ojstrach, la pulizia e il fraseggio di Henryk Szering, il virtuosismo di Jasha Heifetz, l’amore per la musica di Yehudi Menuhin e l’umorismo e la gioia di Itzak Perlman», tale è la sintesi di rare doti violinistiche che gli attribuisce Die Hannoversche Allgemeine Zeitung. A proposito di mostri sacri del passato, quali sono stati i suoi riferimenti?

«Sono proprio questi i miei idoli, così come per tanti della mia generazione. Ma se devo fare delle distinzioni, direi che Ojstrach mi ha certamente influenzato e ancora oggi mi ispira più di altri, non solo come musicista ma come persona. Rappresenta in qualche misura il mio ideale di violinista. Ma anche Perlman, con cui ho lavorato e insegnato, è una grandissima persona e un incredibile violinista. Parliamo di giganti davvero rari oggi. Quando loro registravano non esistevano esempi o punti riferimento ma le loro incisioni sono rimaste le migliori. Ancora oggi i concerti di Tchaikovsky e Shostakovich di Ojstrach e le registrazioni di Perlman o Heifetz sono tanto precise pur senza tagli che denotano quanto la loro visione fosse forte e la loro vita fosse dedicata alla propria arte. Significano dedizione al violino assoluta».

Quali suggerimenti darebbe ai giovani violinisti che guardano a lei come esempio?

«Se guardano a me come esempio per la mia vita in musica o il violino non posso che esserne onorato. Ma se dovessi dare loro un consiglio sarebbe quello di non perdere mai la bussola morale e la valenza etica di ciò che stiamo facendo. Perché la musica classica e il violino sono cose senza tempo, concetti ideali che non bisogna vendere o svendere solo per conquistare il pubblico. La musica classica è già qualcosa che piace, qualcosa di indelebile che avrà sempre spazio nella storia e nel tempo. È importante dedicarsi alla propria arte e far sì che più persone possano avervi accesso tramite canali di grande diffusione come Youtube. Ma è anche necessario saper trovare un equilibrio nel dosare l’utilizzo della tecnologia e non dimenticare il peso dell’essere musicista classico (che non significa essere vecchio o poco interessante). Questo è solo un vecchio stereotipo oggi superato».

Musicista poliedrico, suona classica, tango e rock, passando con disinvoltura dal violino classico a quello elettrico. Quale la sua “visione” sul futuro della musica classica?

«Il futuro è ciò che stiamo vivendo adesso. Non credo che la musica classica debba cambiare, è già geniale e senza tempo, ma occorre agire sul modo di presentarla e sul modo di porsi del musicista sul palco; e questo può certo essere ringiovanito ed energizzato come già sta accadendo. La classica è qualcosa che non può scadere, così come le opere dei grandi pittori, scultori, architetti etc. Si tratta di “cose senza tempo” che, perché siano apprezzate, vanno unicamente presentate in modo più accessibile. Attraverso la sincerità d’espressione e la personalità, in modo che il pubblico possa immedesimarsi e sentirsi più vicino a ciò che avviene sul palco».

I suoi concerti sono momenti di condivisione basati sulla ricerca di contatto con il pubblico. Si tratta di un approccio più fresco mirato a rompere gli schemi rituali associati al concerto?

«Oggi il mio approccio disinvolto è forse meno evidente perché gli schemi classici del concerto sono superati sia dalle grandi orchestre che dagli organizzatori e grande impegno è posto nel ricercare formule fresche di presentare la classica. Non ero così quando sono arrivato in America; venivo da training in cui non lo facevo, ma fin dai primi anni – 20 anni fa circa – mi chiesero di presentare i brani prima del concerto. All’inizio odiavo farlo, poi man mano ho constatato la reazione positiva del pubblico. Molti ridevano ma non era mia intenzione fare lo spiritoso. Solo poi capii che la gente rideva perché ero talmente serio da esser quasi buffo. Così che nel tempo ho iniziato a rivalutare questa forma di apertura nei confronti del pubblico. Una formula attraverso cui chi ascolta può conoscere noi e noi coloro per cui suoniamo. In questo modo si crea un legame e un’interazione speciale tra artista e pubblico. Ma poi, si tratta veramente di qualcosa di nuovo, si tratta davvero di rompere schemi? Non lo facevano forse già Brahms, Paganini e Liszt? Al loro tempo la musica si godeva da vicino e dal vivo, solo in seguito la classica è divenuta ermetica, esclusiva, elitaria, uno status symbol. Ora per fortuna le cose stanno cambiando: nessuno può sentirsi talmente inibito da temere durante un concerto di applaudire nel momento sbagliato, o pensare che si tratti di un genere comprensibile solo a chi ha tante lauree. Tutto può e deve essere naturale o si rischia davvero di perdere il pubblico».

Si divide tra gli Stati Uniti e l’Europa nella molteplice veste di solista, camerista e docente. Come coniuga queste differenti vesti?

«Devo ammettere che non è facile. Infatti trascorro in viaggio fuori casa duecento giorni all’anno. Non è da tutti ma da sempre ho cercato di rendere compatibili l’insegnamento e lo studio per concerti; insegno alla Juilliard da quando avevo 22 anni. Serve grande disciplina, un’organizzazione ferrea e una personalità da nomade. Ma anche maturare un senso astratto di cosa significhi essere a casa, tanto che spesso dopo un concerto mi capita di dire torno a casa e si tratta invece di una camera d’albergo, certo è triste ma c’è di peggio. Ognuna di queste discipline completa l’altra: suonare da solista aiuta ad insegnare, insegnare aiuta a suonare e la musica da camera aiuta tutto. Ritengo davvero importante sviluppare una buona capacità di interazione con gli altri musicisti, e di conseguenza potenziare la propria capacità di ascolto».

E come riesce a conciliare la sfera professionale – la vita con la valigia di un affermato musicista – con quella personale di giovane uomo?

«La vita personale e professionale diventano tutt’uno, in questo mestiere non esiste un’enorme distinzione, non esistono orari o distinzione tra lunedì e sabato. Sono aspetti da mettere subito in chiaro se si è musicisti. Io ho imparato a trovare un equilibrio nonostante questo, mia moglie ha grande comprensione per ciò che faccio e spesso mi segue. Davvero è questione di mentalità, bisogna avere uno spirito un po’ da vagabondo. E proprio per questo occorre un forte legame e l’essere flessibili sull’idea della casa, dell’essere a casa, di dove sia la casa o di chi rappresenti la famiglia o la casa. Beh, quando l’altra persona capisce questo, il problema non sussiste. È quello che abbiamo scelto e che ci ha scelto, sia come professione che come modo di vivere. Anche se non sempre è facile».

Suona un violino Giovanni Battista Guadagnini del 1783. Quali le caratteristiche di questo strumento e quale il suo rapporto con lui?

«Un grandissimo violino, non solo tra i più begli esemplari di Guadagnini ma anche degli ultimi, che non sfigura neppure se paragonato a uno Stradivari o ad un Guarneri. Quello con il proprio strumento è un rapporto molto esoterico, mistico e personale ed esistono tanti livelli del trovarsi bene con un violino o no, si tratta di un fatto sia oggettivo che soggettivo. Trovare un violino adatto a sé è davvero molto difficile o impossibile, ma se si ha una visione forte di ciò che si desidera, spesso è lo stesso violino a trovare il proprio custode in modo misterioso. Così il mio violino è entrato nella mia vita e da lui non mi separo mai. Ha un suono caldo e grande potenza, tanto che il suono arriva bene in tutta la sala. Penetra nello spazio, e tra le caratteristiche che amo possiede un universo di armonici e timbri e diverse potenzialità che contribuiscono ad esaltare ciò che desidero fare e mi ispirano musicalmente e artisticamente. Ogni musicista ha una relazione forte e intima con il proprio strumento».

Impegni imminenti che ha piacere di segnalare?

«Concerti in Italia, poi una piccola pausa e a gennaio una diretta su WFMT a Chicago. A febbraio sarò in Messico, suonerò il Concerto n. 2 di Paganini con l’Orchestra Sinfonica Siciliana e un pezzo di Campogrande, Paganini, Paganini!, a Palermo. A marzo sarò in tournée. E, a maggio, registrerò con l’Orchestra della Radio Televisione di Slovenia i Concerti di Bruch e Beethoven, incredibili e bellissimi capisaldi del nostro repertorio violinistico».

 

 

 

 

 

Nessun Commento

Inserisci un tuo commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.