Finalmente ce l’ha fatta: la Cerca e cava del tartufo è Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’Unesco. L’esito positivo è arrivato dopo un lungo iter: 8 anni di brusche frenate e decise accelerazioni, l’ultima delle quali, lo scorso anno, quando Federazione Nazionale Tartufai Italiani (FNATI) e dall’Associazione Nazionale Città del Tartufo (ANCT) hanno presentato la domanda attraverso il Ministero degli Esteri, con il coordinamento tecnico-scientifico del Segretariato Generale del Ministero della Cultura (MiC). Una rete di realtà, distribuite in tutto il territorio, che si sono mosse perché si riconoscesse il valore di questa pratica, frutto di secoli di storia e tradizioni.
Ora finalmente la richiesta è andata a buon fine, ricevendo l’approvazione da Parigi, dove il Comitato Intergovernativo per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale è riunito per valutare 60 candidature, di cui 42 hanno ricevuto responso favorevole. Per l’agroalimentare due i responsi favorevoli, per il ceebu jen, il piatto nazionale del Senegal a base di riso, pesce e verdure, e la cava e cerca del tartufo. Che – attenzione – non riguarda il prodotto in sé, ma un’intera rete di conoscenze, tecniche, tradizioni e storia, parte della cultura agricola italiana, un patrimonio prezioso che deve essere tutelato, quello che il Comitato ha definito “un insieme di conoscenze e pratiche trasmesse oralmente nel corso dei secoli, tutt’ora caratterizzante la viva rurale di diverse comunità diffuse in tutto il territorio nazionale” secondo quanto riportato dall’Ansa. La ricerca e cava del tartufo si affianca ad altri beni immateriali che riguardano l’alimentazione, per esempio la dieta mediterranea (2010), la vite ad alberello di Pantelleria (2014), l’arte dei pizzaiuoli napoletani (2017) o – all’estero – lo street food di Singapore.
Le reazioni degli addetti ai lavori
Esultano associazioni e singoli operatori del settore, a partire da Michele Boscagli, presidente dell’Associazione nazionale Città del tartufo – nata ad Alba nel 1990 con l’obiettivo di valorizzare e promuovere il territorio attraverso le sue peculiarità ambientali, storiche, architettoniche, culturali ed enogastronomiche, una realtà che oggi riunisce 55 città in diversi territori della Penisola, tra i principali sostenitori della candidatura. “Siamo entusiasti di questo risultato, finalmente ce l’abbiamo fatta” ha commentato Boscagli raccontando di un percorso che, grazie alle istituzioni competenti, ha dato l’opportunità ai soggetti coinvolti di “comprendere l’importanza di salvaguardare saperi e conoscenze della tradizione dei tartufai italiani. Un patrimonio collettivo, prezioso anche per le generazioni future, che va ben oltre il valore del prodotto in sé”. Un ruolo fondamentale di questo percorso, è stata la consapevolezza della necessità di condividere, valorizzare e tutelare le pratiche e i territori in cui sono nate e si sono sviluppate, consegnando un patrimonio collettivo che possa aggiungere valore ai territori e alle comunità: Alba, Acqualagna e Norcia sono le roccaforti del tartufo pregiato italiano, ma non sono le uniche zone dove si cavano questi preziosi tuberi. “L’ingresso del tartufo tra i patrimoni dell’umanità” sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini “è un passo importante per difendere un sistema segnato da uno speciale rapporto con la natura in un rito ricco di aspetti antropologici e culturali. Una tradizione determinante per molte aree rurali montane e svantaggiate anche dal punto di vista turistico e gastronomico”.
Parere positivo anche per Paolo Montanaro, Presidente di Tartufo OK – associazione nazionale che raccoglie i commercianti e trasformatori di tartufo – che sottolinea come in questi ultimi anni ci sia stato un riavvicinamento da parte delle nuove generazioni: “la cerca e cava dei tartufi è una grande tradizione tramandata di padre in figlio. C’è stato un momento in cui è stata un po’ abbandonata, ma oggi assistiamo a un ritorno dei giovani al mondo agricolo e alla ricerca del tartufo”. Una cosa importante non solo perché significa mantenere in vita questa pratica secolare, ma anche per le conseguenze positive che comporta: “il cercatore è quello che frequenta i boschi, che li tutela per primo. Questo riconoscimento implica anche una responsabilità per i tartufai che devono continuare a condurre e mantenere in ordine i boschi, che sono un altro patrimonio da proteggere”
Marchio Unesco: attenzione a non sovrasfruttare
Il monito del comitato è non cadere nella trappola di abusare del marchio Unesco per sovrasfruttare la pratica con una eccessiva commercializzazione. Non solo: l’invito è quello di garantire la sorveglianza e la buona gestione delle attività turistiche, di tenere in considerazione il benessere del cane “sia nell’ambito delle attività di cerca e cavatura del tartufo che durante la pianificazione e l’attuazione delle misure di tutela”. L’ultimo suggerimento dato è la condivisione delle esperienze di tutela con altri Stati con caratteristiche simili, così che il patrimonio culturale sia sempre più unm patrimonio condiviso e accessibile a tutti. “Il riconoscimento, qualora ci fosse, assumerebbe per i territori in difficoltà un valore ancora più importante, soprattutto come sprone per infondere fiducia in una ripresa sociale ed economica delle comunità” diceva quattro anni fa Michele Boscagli, in un’assemblea a sostegno della candidatura, tenutasi a Norcia all’indomani del terremoto: una riflessione che vale tanto più oggi, in un’Italia che cerca di fare i conti con una pandemia che ha devastato territori ed economie.
E mentre c’è chi studia nuovi metodi di conservazione per allungare la stagione del tartufo, il mondo continua a essere affascinato dal Tuber magnatum pico e al complesso di tradizioni, pratiche, storie e ritualità che gli gira intorno, come la fiera internazionale che ogni anno si tiene ad Alba, e l’epica dei cercatori, come dimostra il film The Truffle Hunters, omaggio a una generazione di uomini che hanno dedicato la loro vita, quasi con ossessione, alla ricerca del tartufo bianco
Antonella De Santis
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