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30 Mag

Teatri e gente d’Italia. Intervista ad Alberto Mattioli

Scrittore, giornalista, grande esperto d’opera (ad oggi è alla sua recita numero 1.989) e una delle voci più autorevoli della critica in Italia: è Alberto Mattioli. E oggi esce Gran Teatro Italia. Viaggio sentimentale nel paese del melodramma, il suo nuovo libro edito da Garzanti, un tentativo di raccontare l’Italia attraverso i suoi teatri d’opera (e viceversa)”, come dice lo stesso autore.

In 190 pagine è condensata un’importantissima parte della nostra storia, quella che purtroppo non insegnano a scuola. Soltanto in Italia i teatri sono qualcosa di più di un semplice luogo per godersi lo spettacolo, in passato si andava per stare in compagnia, per discutere di politica, per divertirsi. E nonostante sia cambiato molto, se non tutto, negli ultimi quarant’anni, i teatri continuano ad essere fulcro della vita sociale e musicale di ogni città. Proprio per questo, suggerisce Mattioli, offrono la prospettiva migliore per osservare e cercare di comprendere l’Italia. Detto fatto, attraverso un racconto molto divertente, ricco di spunti, aneddoti e curiosità, ottenuto anche percorrendo lo Stivale in tutta la sua lunghezza e percorrendo così un specie di Gran Tour: dal Regio di Torino al Massimo di Palermo, dai velluti rossi della Scala di Milano alle pietre dell’Arena di Verona, dai palchi dei minuscoli teatri storici marchigiani alle ampie sale del San Carlo di Napoli, per scoprire come le storie si mescolano alle leggende per fondare miti, ma anche come cambiano i gusti e le abitudini del pubblico, il ruolo avuto dai loggioni nei debutti celebri e nei fiaschi clamorosi, quali grandi viaggiatori stranieri hanno amato i palcoscenici nostrani.

GTI, copertina


“Il teatro accumula l’Italia lasciandola divisa”


Il nuovo “librino” (come lo chiama vezzosamente l’autore) avrà un tour di presentazioni. Per ora sono confermati due appuntamenti: il primo a
Mantova il 31 maggio alle 18.30 nel Salone di Palazzo Castiglioni, nell’ambito del festival Trame Sonore; il secondo, il 13 giugno alle 18.00 al Ridotto della Scala con interlocutori anche il Sovrintendente Dominque Meyer e Francesco Maria Colombo.

Ho parlato con Mattioli per saperne di più (aggiungo che è un gran signore, mi ha trattata come fossi già una sua collega di lungo corso).

 

Come stanno in salute i teatri d’opera?

«Secondo me in Italia abbastanza male. Questo è un po’ un paradosso perché, a differenza di quello che si crede in Italia, l’opera sta attraversando un ottimo momento nel mondo globalizzato. Infatti, negli ultimi anni, sono stati aperti nuovi teatri in Cina e anche nei paesi arabi. Invece in Italia, che paradossalmente è il paese che l’ha inventata ed è l’unico paese di cui l’opera veramente costituisca un elemento dell’identità nazionale, la situazione è piuttosto deprimente. Intanto perché la politica non è interessata ai teatri d’opera se non come fonte di clientelismo e lo si è visto incredibilmente con questa vicenda del San Carlo dove il più antico teatro d’opera ininterrottamente in attività, è stato considerato una specie di deposito per liberare altre posizioni di potere. C’è un sistema organizzativo vecchio, superato, ancora troppo dipendente dal finanziamento pubblico e c’è una grande paura di innovare, di inventare, per cui è dato scarsissimo spazio all’opera contemporanea, mentre invece al Metropolitan di New York – abbiamo appena saputo – un terzo della programmazione sarà rivolta alle opere contemporanee. E scarsissimo spazio è dato all’altra grande opera contemporanea di oggi che è il Barocco e c’è assoluta ripetitività e noia negli allestimenti. Insomma, il quadro in Italia è piuttosto deprimente».

© Alberto Mattioli

Qui da noi sono ancora il fulcro della vita civile delle città? E più nelle grandi città o nelle piccole?

«Chiaramente non lo sono più perché non dimentichiamoci che la fruizione del teatro d’opera nel Settecento e Ottocento era completamente diversa da quella attuale, cioè si andava a teatro tutte le sere nei periodi in cui c’era la stagione anche perché, oggettivamente, c’erano poche altre distrazioni in un paese dove la vita sociale è sempre stata molto rudimentale, dove si è sempre letto molto poco e dove il teatro di prosa, benché sia sempre esistito, è sempre stato considerato meno importante di quello musicale. Si andava a teatro anche per ragioni molto banali: nelle notti d’inverno la gente, ricchi e poveri tutti, che viveva nei palazzi di pietra sostanzialmente irriscaldabili dove l’illuminazione, per esempio, costava moltissimo (le candele erano un lusso a quei tempi) andava a teatro perché lì c’erano caldo, luce e compagnia. Da qui la stravagante caratteristica dei teatri italiani che non sono stati pensati e costruiti per vedere nelle migliori condizioni possibili uno spettacolo, ma come luogo di socialità. Il sistema dei palchetti è del tutto irrazionale se lo scopo è quello di vedere bene lo spettacolo, è invece molto intelligentemente concepito per passarci la serata. Prendiamo la stagione di carnevale di un teatro italiano nel 1700 che cominciava il 26 dicembre e finiva il Martedì Grasso, cioè la sera prima della Quaresima. Chi aveva un palco andava a teatro tutte le sere, ma è impensabile che per quaranta sere uno dovesse assistere in silenzio, al buio, alle repliche di due o tre opere. È chiaro che è tutt’altro che ascoltare musica, è un ascolto completamente diverso, e a teatro si andava per mangiare, fare conversazione, ballare, parlare, giocare d’azzardo, fare l’amore, eccetera. Da qui l’enorme importanza che hanno gli spazi destinati alla socialità: i ridotti, i caffè, le gallerie e così via. Se guardi, per esempio, i teatri di Broadway e del West End che sono molto grandi e belli, non hanno degli spazi così perché lo scopo è quello di vedere lo spettacolo e vendere biglietti. La fruizione teatrale italiana è sempre stata diversissima, infatti mi ha fatto molto ridere la polemica nella quale sono stato coinvolto anch’io  quest’inverno, sul presunto oltraggio che sarebbe stato ospitare alla Scala un concerto di Paolo Conte. Alla Scala ci sono stati prestigiatori, addestratori di animali…il tempio è già stato ampiamente sconsacrato!»

La sala vista dal palcoscenico in una cartolina dei primi anni del Novecento

C’è differenza nell’andare a teatro nelle grandi città rispetto a quelle più piccole?

«Beh, io penso che nelle grandi città, che poi in Italia sono molto meno di quelle che si pensano, l’offerta teatrale è molto maggiore quindi è chiaro che in una città di provincia l’attenzione è più concentrata. Prendo una città come Modena che ha un buon teatro di tradizione, ci saranno quindici recite d’opera in una stagione, venti se vogliamo essere ottimisti, mentre alla Scala sono centocinquanta; è ovvio che a Milano hai una possibilità di scelta che altrove non hai. E a proposito della domanda di prima, io non credo che i teatri siano ancora al centro della vita sociale, culturale e mondana delle città come erano fino all’avvento del cinema, tuttavia credo che restino una componente molto importante della loro identità e che mantengano comunque, se non altro a livello spinale e di memoria, un peso che non ha eguali nel resto del mondo civilizzato. Io penso che le uniche due città dove il tassista ti parla delle malefatte del locale teatro d’opera siano Milano e Vienna. Non esiste da nessuna altra parte un rapporto simbiotico fra teatro e città come c’è a Milano e a Vienna».

Quanto è durato il Gran Tour dei teatri? Hai scelto di fare un giro e delle opere particolari apposta per il libro?

«Questo Gran Tour dura da quando sono nato. Diciamo che mancheranno delle piazze che sono importanti e significative, le prime che mi vengono in mente sono Genova, Trieste e Cagliari. Però è chiaro che io ho parlato delle città che in qualche modo conosco, quelle dove ho vissuto o dove sono stato molto spesso o dove conosco della gente, per cui in realtà io ho parlato di Milano, che è la parte ovviamente più ampia del libro, di Torino, Verona, Venezia; poi ci sono due capitoli collettivi, uno sull’Emilia Romagna e un altro sulle Marche; ci sono Firenze, Roma, Napoli, Palermo; un breve e divertente capitolo dedicato ai teatri più piccoli d’Italia, che sembra un po’ un intermezzo buffo come si mettevano nell’opera seria. E poi c’è un finale un po’ a sorpresa perché dedicato a Siracusa dove l’opera oggi non si fa ma dove, devo dire, l’estate scorsa sono andato per la prima volta a vedere le tragedie al Teatro Greco e questa cosa mi ha molto colpito e molto fatto riflettere. Non voglio anticipare nulla ma ho avuto un’esperienza molto forte che in qualche modo mi ha riportato alle origini di tutto, che poi le origini di tutto sono quelle lì».

Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena © Rolando Paolo Guerzoni

Ma i teatri oggi rispecchiano di più le istituzioni che li governano o il pubblico?

«Purtroppo rispecchiano più le istituzioni che li governano e non abbastanza il loro pubblico. Io credo che il pubblico italiano sia molto più curioso e sveglio di quanto chi governa i teatri pensi, tradizionalmente il pubblico italiano è sempre stato un pubblico sveglio e veloce nel recepire le novità. L’idea che il teatro sia un museo, un’idea profondamente sbagliata, è anche un’idea molto recente. Fino all’inizio degli anni ’80, infatti, l’Italia era all’avanguardia nel panorama del teatro musicale oggi invece alla retroguardia, ma ci sono delle ragioni molto complesse su questo che non ho affrontato nel libro – perché il libro parla di altre cose – però è un dato di fatto».

© Teatro Greco di Siracusa

Immagino l’orgoglio soprattutto nei piccoli o minuscoli teatri della provincia di entrare a far parte di questo Tour: secondo te che cosa si aspettano dal libro?

«Dal mio libro niente, perché non conto assolutamente nulla. La cosa interessante è che l’Italia è sempre stato un paese policentrico e di capitali ed è abbastanza paradossale perché ci sono delle località che oggi sono dei puntini minuscoli sulla superficie del mondo, dei paesoni diciamo, che non contano assolutamente nulla e che sono stati, come dire, delle capitali culturali del mondo. Pensa a Urbino o a Ferrara, o a Mantova con i suoi quarantanovemila abitanti, e capisci che rispetto a una metropoli cinese non conta nulla dal punto di vista demografico ed economico però è stato uno dei posti dove hanno inventato il Rinascimento, che non è poco! L’Italia è piena di “capitaline” per le quali, fra l’altro, l’Unità fu una catastrofe. Penso a Parma, a Modena, a Lucca. E devo dire che i cosiddetti teatri di tradizione sono mediamente molto meglio gestiti dalle fondazioni lirico-sinfoniche perché sono molto più snelli, hanno un rapporto con il pubblico molto più diretto e immediato. E quindi, a disparità di risorse, mediamente producono cose fatte meglio e con più amore. L’unico posto dove penso che non prenderanno bene questo libro è Parma (e ride sornione)».

Gran Teatro Italia è disponibile da oggi in libreria o online qui.

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