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13 Nov

Biacchessi, un narratore della memoria

Si può fare giornalismo efficace oggi in Italia? Leggendo le inchieste e i libri che pubblica, e ascoltandolo per radio, si può dire di sì. Daniele Biacchessi è attivo nella filiera dell’informazione dalla metà degli anni ’70, ed è molto difficile riuscire a racchiudere in un settore ristretto il suo campo di competenza. Comunque un punto comune si può trovare: vivere la sua professione nell’ambito della conservazione e divulgazione della memoria. Così Biacchessi ha affrontato diversi aspetti della storia del nostro paese, passando dall’omicidio a Milano alla fine degli anni ’70 di Fausto e Iaio, alla scoperta dell’armadio della vergogna (dove furono nascoste le prove delle stragi nazi-fasciste durante la Seconda Guerra Mondiale), dalla tragedia della contaminazione chimica a Seveso per colpa del ICMESA, alla bomba alla stazione di Bologna e agli omicidi legati al terrorismo. Ma anche il dramma dei desaparecidos in Argentina. Inoltre Biacchessi è anche un esperto di musica, ed è proprio a proposito del suo ultimo libro – L’altra America di Woody Guthrie – che l’abbiamo incontrato per capire perché ha scelto di occuparsi del songwriter statunitense, padre della generazioni di cantautori dagli anni ’60 in poi, ma anche figura atipica negli Usa degli anni ’40 e ’50.

Perché un libro su Woody Guthrie?
«In Italia e nel mondo mancava un libro che raccontasse l’aspetto più importante della figura di Guthrie: la sua militanza politica e sindacale. Al di là delle sue canzoni, del suo stile innovativo sul piano musicale, Guthrie era un comunista americano, uno che combatteva per i diritti dei lavoratori e degli ultimi della Terra».

Dalla lettura si capisce bene quanto lavoro di ricerca è stato fatto. Nella stesura hai incontrato problemi?
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Negli anni ho raccolto un volume immenso di materiale su Guthrie scritto da musicisti, critici, storici, perfino filosofi e politici in tutto il mondo. Guthrie è stato analizzato sotto diversi piani, ma restava sempre sotto traccia il suo profondo impegno politico e civile.
Non c’erano solo le sue canzoni come This land is your land (che comunque venne censurata per la frase sulla proprietà privata), ma anche brani come 1913 Massacre sulla strage degli italiani a Calumet in Michigan, Ludlow Massacre sull’eccidio di lavoratori in sciopero, l’intero progetto sugli anarchici Sacco e Vanzetti a cui ha dedicato ben 11 ballate, All fascists bound to lose un inno antifascista contro Hitler e Mussolini, Deportee sull’incidente aereo di Los Gatos dove perdono la vita 28 lavoratori stagionali messicani».

Oltre alla figura del songwriter statunitense il libro racconta l’epopea di un’altra America, che ha ispirato scrittori e musicisti, miraggio per molti, ma piena di contraddizioni. Questa esperienza è da considerarsi ormai storia passata oppure alcune di quelle contraddizioni sono ancora presenti alle soglie del secondo decennio del XXI secolo?

«Il fantasma della famiglia Joad [protagonista del romanzo Furore di John Steinbeck, n.d.a.] aleggia ancora in America. Guthrie girava l’America negli anni della Grande Depressione, del crollo di Wall Street, della grande crisi finanziaria. Viaggiava per un’America che nel 1935 veniva colpita dalle Dust Bowl, le tempeste di polvere che costrinsero 700mila abitanti dell’Oklahoma a spingersi fino in California per cercare fortuna, una nuova vita. Ma quella vita per loro non è mai arrivata perché quando arrivarono a Los Angeles non trovarono lavoro e vennero piazzati sulle alture in veri campi profughi senza acqua, senza servizi essenziali. Da agricoltori benestanti si trasformavano in barboni.
Guthrie era la loro voce, quella degli sfruttati, mal pagati. E in anni più recenti un’altra crisi finanziaria partita dall’America ha tirato giù le economie mondiali, nel castello di sabbia dei cosiddetti titoli derivati. Cioè quel sistema finanziario senza regole minava ancora una volta i risparmi dei cittadini. Il passato è diventato presente».

Woody Guthrie

Da qualche anno hai deciso di trasformare i tuoi libri in progetti teatrali e per immagini. Puoi raccontarci come ti è venuto in mente questa idea?
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Ne ho realizzati cinque con le illustrazioni di Giulio Peranzoni. Sono stati tutti prodotti in crowdfunding, finanziati solo ed esclusivamente da migliaia di persone, il mio pubblico. Giovanni e Nori. Una storia di amore e di resistenza era un libro uscito per Laterza, diventato uno spettacolo con i Gang e Gaetano Liguori. Dopo alcune date di tournée, ho fatto entrare nel nostro gruppo Giulio Peranzoni che nel frattempo aveva inventato e perfezionato una tecnica straordinaria e spettacolare di illustrazione dal vivo: LDP, Live Digital Painting.
Quando arrivammo a Casalgrande (Teatro De André), trovammo una troupe di conoscenti di Peranzoni che iniziarono a registrare lo spettacolo. Poi decisi di realizzare il film su Giovanni Pesce (capo dei Gap a Torino e Milano), e sulla sua staffetta Onorina Brambilla detta Nori, diventata poi sua moglie e compagna di una vita. Era uno spettacolo con le immagini in Ldp editate. 

Il primo format arrivò con I Carnefici, la storia di un nonno scampato dalla strage di Montesole- Marzabotto (29 settembre-13 ottobre 1944, 800 morti civili), che racconta al nipote la marcia della morte della 16esima divisione Panzergranadier che colpì in centinaia e centinaia di borghi inermi della Toscana ed Emilia, seminando morte e distruzione. Era la mia voce narrante che accompagnava i disegni fantastici e drammatici di Peranzoni e le musiche di Gang, Gaetano Liguori, Andrea Sigona, Massimo Priviero. Diciamo una bozza di quello che sarebbe poi arrivato con Il sogno di Fausto e Iaio (215% dell’obiettivo in crowdfunding, oltre 200 proiezioni in Italia ed Europa, decine di migliaia di persone alle proiezioni), e Una generazione scomparsa. I mondiali in Argentina del 1978 proiettato in Italia e Argentina, con il dvd del film inserito in terza di copertina del libro edito da Jaca Book e ristampato per l’occasione.
Questo ultimo format ha funzionato sul piano tecnico e produttivo e ora L’altra America di Woody Guthrie segue questo percorso: prima il libro e la sua promozione in tanti appuntamenti pubblici, poi le proiezioni del film che rilanciano il libro».

Nella tua lunga carriera hai ricoperto molti ruoli: giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e televisivo, autore e interprete di teatro. Dove ti senti più a tuo agio?

«Ogni mestiere utilizza linguaggi diversi. Diciamo che io sono partito nel 1976 con la radio e nel corso di tutti questi anni sono stato uno sperimentatore e un inventore di format. Nei primi del Duemila ho iniziato a raccontare storie italiane e non, in modo diverso in teatro e in radio. Storie dimenticate che chiedevano sempre verità e giustizia. Non erano solo monologhi ma vi era l’utilizzo di audio di archivio, musiche, effetti, partiture di voci. Così ho reinventato il radiodramma che per come era conosciuto ormai era roba vecchia e andava ricondotto al presente.
Bisogna sperimentare, mai stare fermi agli schemi e alle convenzioni. Bisogna avere il coraggio di cambiare per migliorare».

Il tuo lavoro è sempre stato contraddistinto dalla ricerca della verità. Che esso si sia rivolto a grandi tragedie, come quella dei desaparecidos in  Argentina, oppure di “piccole” storie di cronaca, come l’omicidio a Milano di Fausto e Iaio. Cosa ti ha spinto e ti spinge ancora oggi a investigare e raccontare avvenimenti che molti vorrebbero lasciarsi indietro?

«Ti rispondo con una frase di un magistrato mio amico che ha lavorato a lungo nelle inchieste sulle stragi che hanno insanguinato il nostro paese. Io la penso esattamente così e sono partito da qui tanti anni fa. “Ci avete sconfitti, ma adesso sappiamo chi siete. Tutti noi che ci siamo occupati di stragi, di poteri occulti ne siamo usciti con le ossa rotte. Abbiamo lavorato in condizioni difficili, in un clima di aggressione. Sono cose che lasciano il segno. Per qualche tempo ci siamo illusi di rappresentare uno Stato che avesse la volontà di fare luce su crimini mostruosi. Poi io ho capito: non è possibile fare giustizia su fatti che sono tragedie umane, per il numero elevatissimo di vittime innocenti, ma anche tragedie storiche, per ciò che hanno significato per il nostro assetto democratico”. Queste sono le parole di Libero Mancuso, tratte dal libro Grande vecchio di Gianni Barbacetto».

Sono passati 50 anni dal ‘68, quell’esperienza è fallita del tutto oppure ci ha insegnato qualcosa?
«Non ho fatto il ’68. Sono figlio della generazione degli anni Settanta. Ho vissuto di più il ’77. Penso però che gli anni che vanno dal ’68 al ’77 siano stati costellati da un grande sogno di cambiare il mondo: i costumi, i comportamenti, il modo di lavorare, di produrre, di stare insieme, di creare nuovi valori, di rompere quegli schemi della società arcaica e a tratti medievale che non includeva, ma escludeva sempre più intere classi. Oggi quei cambiamenti straordinari vengono messi in discussione perché prevale l’individualismo e si fa poco o niente Bene Comune».

Che Italia stiamo donando alle nuove generazioni?
«Un Paese profondamente ignorante ed egoista che guarda agli interessi di pochi, dove il divario tra chi ha la pancia piena e chi stenta a tirare a campare si è allargato, dove si guarda e si studia poco e si vive attaccati ai nuovi strumenti tecnologici che, facciamo attenzione, non sono il Diavolo, ma dovrebbero essere utilizzati in modo intelligente».

Futuri progetti?

«Il film L’altra America di Woody Guthrie che esce a gennaio 2019, distribuito ai crowdfunders e nelle librerie in terza di copertina dell’omonimo libro edito da Jaca Book. Il libro e lo spettacolo L’Italia liberata sulle storie partigiane, il grande libro che rilancia l’epica della Resistenza attraverso i ricordi e la narrazione delle nuove generazioni che scrivono ciò che gli è arrivato come fosse un passaggio di testimone. Perché nulla vada mai dimenticato».

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