È innegabile che Massimo Bubola ha lasciato, e sta ancora lasciando, una indelebile traccia nella storia della musica italiana, e da qualche anno anche in quella della letteratura. Ammesso che si sia consapevoli (e il Nobel a Bob Dylan lo dimostra), che le due “arti” possano avere intersezioni in alcuni loro aspetti.
Nato in provincia di Verona, giovane di talento, dopo il suo primo album nel 1976, appena poco più che ventenne, inizia una collaborazione con Fabrizio De André, che lo porta, tra gli altri, a scrivere con lui due album fondamentali come Rimini e Fabrizio De André (quello con l’indiano in copertina) e i brani Una storia sbagliata e Don Raffaè. Il suo lavoro di compositore e produttore lo ha portato a scrivere canzoni e a produrre per interpreti quali Milva, Fiorella Mannoia (prima interprete de I cieli d’Irlanda, magica canzone a firma di Bubola), Kaballà, Cristiano De André, Mauro Pagani, Gang, Massimo Priviero, Estra.
La sua origine veneta, gli studi e la passione per la storia (quella antica e recente), l’hanno portato a interessarsi alle vicende della Grande Guerra, a cui ha dedicato molte canzoni e la revisione di un repertorio popolare legato alla sua terra e a quel conflitto.
In molti in questo ultimo anno hanno cavalcato la riscoperta della guerra del 15/18, ma si deve dare merito a Bubola di aver accompagnato la sua carriera con la tenacia dello storico, nel leggere il presente anche nell’ottica dei fatti passati, anche attraverso una produzione letteraria sempre di primissimo livello. L’ultimo suo libro (Ballata senza nome, edito da Frassinelli) è proprio dedicato a quel periodo e, come racconta lo scrittore Alessandro Perissinotto (per la presentazione del libro per il Premio Strega 2018) «L’opera di Massimo Bubola, all’apparenza (e solo all’apparenza) composta da una serie di racconti riuniti entro la cornice narrativa della cerimonia per la scelta del feretro da inviare a Roma in qualità di Milite Ignoto, è in realtà un romanzo corale, collettivo, come straordinariamente corale e collettiva fu la Grande Guerra. Quella tragedia è raffigurata dagli undici personaggi narranti, non come un dipinto, ma come un mosaico, di cui ciascuno di loro è tessera minuscola, da unire alle altre dieci presenti nel libro e agli altri milioni di tessere che il lettore, trascinato dal susseguirsi delle vicende, non può fare a meno di immaginare, […] “Ballata senza nome” è autenticamente “ballata”; della ballata ha il ritmo e l’andamento e lascia nella mente il senso di malinconia di altre ballate che hanno vissuto in equilibrio tra narrazione, poesia e musica, dalla Ballade des pendus di François Villon, alla Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters ».
Il libro pare costruito come un concept album: un soggetto e undici “capitoli” per narrare una storia. Come hai avuto questa idea?
«L’idea mi è venuta qualche anno fa dopo l’articolo che mi fu chiesto da Alessandro Cannavò per il Corriere della Sera sulla vicenda del Milite Ignoto. È una storia rimasta stranamente poco conosciuta nel nostro paese nonostante il viaggio del treno che trasportò la bara del Milite Ignoto dalla stazione di Aquileia fino a Roma, rimanga, quanto a partecipazione popolare, la più concorde, commossa e affollata nella storia d’Italia. Circa otto milioni e mezzo di persone andarono a salutare il treno, a gettare un fiore, un biglietto o una preghiera, per quel soldato senza nome che rappresentava il figlio, il marito, il padre, il fratello di tanti che l’avevano perduto in guerra».
Nel libro si toccano molti aspetti e circostanze delle Grande Guerra, in che modo hai scelto di collocare uno specifico personaggio all’interno della narrazione? E come hai scelto il linguaggio del racconto?
«Oltre all’aspetto dell’indagine storica e militare, per me è stato molto importante leggere centinaia di lettere scritte e spedite al fronte negli archivi storici dove sono state raccolte e in altri ambiti di saggistica e letterari in cui sono state analizzate. Ho cercato di rappresentare vari personaggi significativi per l’epoca, ampliando e sviluppando le loro vicende in un contesto dove i valori e i riferimenti sentimentali erano ben diversi da adesso. Ho cercato di creare una specie di grande affresco attraverso le storie dei soldati senza nome che ho narrato, che rappresentassero in maniera significativa la visione del mondo, le aspettative, l’emotività, i legami affettivi dell’epoca. Una sorta di mappa dei sentimenti di allora molti dei quali ormai notevolmente cambiati o estinti.
Così attraverso la lettura di molti archivi epistolari ho cercato di assimilare il modo di rapportarsi delle persone di allora, il loro linguaggio, i riferimenti, le speranze e le preoccupazioni della gente umile di un secolo fa, in gran parte contadini. Ho poi miscelato il tutto con una lingua letteraria, mischiando il suono di un italiano primi Novecento e le espressioni di tanta gente non letterata, ma che usa un linguaggio efficace e sintetico, quindi facile da rendere poetico».
Nell’intreccio del racconto riesci a mescolare una narrazione reale, mistica e onirica, trovando a volte una sospensione temporale della storia. È stata solo una mia sensazione…
«Spesso la narrazione viaggia su un confine potente e flebile tra la vita e la morte. Il tempo è sospeso in un eterno presente che comprende ciò che è accaduto dall’inizio dell’esperienza di guerra, quello che si è lasciato a casa e quello che sta per accadere. È un tempo che ha aperto le sue porte e chiuso le precedenti e non fa intravedere altro se non vaghe e trasparenti speranze su un presente da incubo. C’è lo straniamento spazio temporale di un sogno, dove è difficile riflettere fuori da quello che accade e accadono continuamente cose mai immaginate.
Per far parlare dei soldati morti e ricostruirne la storia e le vicende, ho impiegato la poesia, perché è l’unica forma di scrittura che può saltare tanti passaggi logici e che può dare irragionevolmente un nome ed un’anima a dei soldati senza nome».
Da molti anni il tuo percorso artistico verte sulla memoria, riscoperta e rilettura di una guerra che sembrava dimenticata, cosa ti lega a questa parte della storia italiana?
«Mi sembra sia stato uno dei momenti di rara autenticità della breve storia nazionale di un paese che cominciava a conoscersi in un frangente così tragico e sventurato come è un conflitto mondiale. L’analfabetismo era elevatissimo e anche la difficoltà di comprendersi, visto che la lingua italiana, cioè il fiorentino, era parlato solo dal cinque per cento dei soldati e gli altri parlavano altre lingue neolatine, ma assai diverse tra loro. Però nell’estremo disagio e nella difficoltà, la solidarietà contadina e il coraggio sono riusciti a sovvertire la cappa d’astio e di delirio e la cultura dell’odio e del sangue che cercarono invano di instillare per tutti gli anni della guerra gli alti comandi e in particolar modo il capo di stato maggiore Cadorna con la retorica di tanti proclami e con la propaganda militare».
Sono passati 100 anni dalla fine della Grande Guerra, tu che sei veneto e in quelle terre vivi ancora, ci puoi testimoniare quante sono ancora le “ferite” aperte nei territori che l’anno vissuta in modo diretto? E quanto è rimasto nella memoria degli abitanti?
«Il Veneto porta ancora profonde cicatrici visibili della Grande Guerra. È tutta una trincea dal Monte Baldo sul lago di Garda, ai Monti Lessini, al Pasubio, all’Altopiano di Asiago, al Monte Grappa e poi su per il Lagorai, la Val di Fassa, Passo San Pellegrino, la Marmolada, l’Agordino e il Cadore. Poi c’è il fiume Piave, quello del dopo Caporetto, con le sue trincee i suoi luoghi segnati ancora da strade militari come il Montello e le toponomastiche che ricordano battaglie cruente sul fiume: come l’Isola Rossa, l’Isola dei Morti vicino a Moriago. E poi tanti nomi dei paesi sul Piave riportano l’appellativo “della battaglia” tra cui Nervesa, Lossòn, Fagarè, Moriago, Sernaglia».
Tu prima d’essere uno scrittore sei stato, e lo sei ancora, un autore e compositore di canzoni, quanto hai trasferito della tua esperienza musicale nella narrazione del libro?
«La lingua che uso ha una sua musicalità interna, come se seguissi una metrica interiore che fa da colonna sonora al racconto. C’è poi l’uso di rime interne, di ossimori e allitterazioni, sineddochi e altro che seguono i percorsi, le ambientazioni e i colori delle atmosfere del racconto».
Quanto per te è stretto il rapporto tra musica e letteratura? Anche nell’ottica che la maggior istituzione al mondo nell’ambito letterario, quella del Nobel, ha assegnato il proprio premio a un “poeta anomalo” come Bob Dylan?
«Direi che Dylan non è prorpio un poeta anomalo, semmai è tra i più grandi poeti del Novecento. Dylan senza dubbio per la sua somma e vasta opera sta a buon diritto accanto ai grandi poeti del Novecento come Eliot, Lorca, Pound, Ginsberg, Ungaretti, Creeley, Hughes, Prévert, Neruda, Evtushenko. Il fatto di musicare le sue poesie, semmai aggiunge e non toglie qualità alla sua opera poetica. Forse che Prevert quando scriveva la poesia Les Feuilles mortes, fosse un poeta, poi quando la sua splendida poesia fu musicata dal compositore Joseph Kosma, smettesse di esserlo! E questo vale anche per tante poesie di Rimbaud, di Apollinaire, di Queneau musicate nel tempo e cantate per le vie di Parigi.
Infatti la prima forma di letteratura è cantata, basti pensare ad Omero e Esiodo che cantavano la loro grande poesia epica nelle corti greche dell’ottavo secolo avanti Cristo. Erano poemi scritti in versi e rima, così come le canzoni ancor oggi che mantengono ancora un forte legame con la poesia antica e con le strutture formali di metrica e rima, che la poesia moderna e contemporanea hanno in gran parte abbandonato.
Solo chi non conosce la storia della letteratura, può pensare che uno scrittore di canzoni non sia un poeta. Lo sono stati Dante e Petrarca coi loro rispettivi Canzonieri (e il titolo dovrebbe suggerire qualcosa) e lo sono stati poeti come Poliziano e Metastasio che dette un grande apporto all’affermazione del melodramma e Lorenzo da Ponte, che scrisse, tra l’altro, tre opere per Mozart. Tutti questi poeti e letterati conoscevano e componevano sulla musica e la suonavano.
Oggi i poeti non hanno un buon rapporto con la musica, ma questo è un problema relativamente recente che riguarda soprattutto il Novecento, ma con qualche eccezione».
Eric Hobsbawm ha marchiato il Novecento come il “secolo breve”, ma a me pare che arrivati quasi al secondo decennio del XXI secolo, quello precedente è ancora molto presente nel nostro quotidiano. È come se non riuscissimo a staccarci da esso…
«Sono d’accordo con te. E semmai sarà stato anche breve, ma molto intenso».
I tuoi progetti futuri?
«Sto producendo e scrivendo nuove canzoni per l’album di Lucia Miller che verrà pubblicato entro l’anno. Per il resto sto facendo concerti e presentazioni del libro di cui abbiamo parlato, Ballata senza nome».
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