Non è raro incontrarlo in giro per Milano, cuffie alle orecchie, rapito all’ascolto dei tanti suoni del mondo. Corpulento, una stazza che ricorda quella del regista Michael Moore con il quale condivide l’affabilità, l’ironia e la passione per la musica da comunicare con intelligenza, Carlo Boccadoro si direbbe una sorta di periscopio umano che drizzi perennemente le antenne verso l’infinito. Sempre pronto a catturare universi sonori anche diversissimi tra loro. Compositore, direttore d’orchestra, divulgatore di fatti e fenomeni musicali contemporanei con un ricco passato di percussionista (ma pure brillante saggista e squisito narratore) è nato in realtà a Macerata, anche se vive a Milano da più di mezzo secolo. Ed è qui che nel ’97 è riuscito a creare uno dei più importanti festival italiani e ormai europei, quella rassegna di «Sentieri Selvaggi» che dopo l’inaugurazione del 4 febbraio prosegue all’Elfo Puccini fino a maggio. Non solo, reduce da una fitta settimana sul podio della Verdi dedicata al compositore Fabio Vacchi continua a macerare partiture – da scrivere, interpretare, annotare – con quella lucidità che molti gli invidiano.
Carlo Boccadoro, la tua musica è stata diretta da Chailly davanti a 8 mila persone, ma tra le tante esperienze tu hai anche guidato il coro di ragazze nella prima scena del film La grande bellezza di Sorrentino. Come unisci questi due mondi?
«Non saprei, sono state entrambe due avventure straordinarie. La differenza è che nel primo caso c’era un direttore di rinomanza mondiale, come appunto Chailly. Nel secondo, che c’ero semplicemente io. Due cose ben diverse, a dire il vero».
Partiamo dai Sentieri Selvaggi. Come sta andando la nuova stagione?
«Benissimo direi, e siamo appena agli inizi. Il festival è in crescita, quest’anno una delle novità è che affiancheremo dei classici del Novecento storico alle partiture più recenti in un dialogo fra passato e presente, ancor più intrigante. Un cartellone fervido di curiosità, che non a caso quest’anno abbiamo voluto intitolare appunto Dna. Dopo l’avvio con una prima italiana di Francesconi (recentemente presentata da Barenboim a Berlino) ci saranno infatti pagine di autori come Stravinskij, Rota, Ravel, Berg, Milhaud, Messiaen e Bartók: tutto appunto insieme a brani di musicisti storici delle avanguardie (Donatoni, Bussotti), protagonisti del nostro tempo (Crumb e il nostro Colombo Taccani) e nomi che si sono ribellati all’entourage sperimentale come Testoni e Lucchetti».
Qual è in fondo il segreto di «Sentieri»?
«L’eccellenza degli esecutori. Non esiste altro gruppo così bravo, capace di realizzare le partiture e attento a tutti gli aspetti tecnico-interpretativi come il nostro. Sicuramente in Italia e forse in Europa».
Progetti a lunga distanza che state coltivando?
«Ce ne sono parecchi, avessimo più fondi potremmo fare di più. Ma ad uno almeno ci tengo molto, cioè portare l’avanguardia anche nelle periferie. Il primo bando non è andato a buon fine, ma noi teniamo duro, non ci arrendiamo. Vogliamo collaborare con altre realtà interessanti per far capire che la musica d’oggi non è roba da élite e da intellettuali sofisticati, ma una realtà viva e partecipe che può piacere a tutti».
Il pubblico reagisce sempre bene?
«La cosa bella è che il nostro pubblico si è fidelizzato, dopo vent’anni. Si è convinto della bontà delle nostre proposte e ci segue ad occhi chiusi. Cosa non facile e automatica, in altri contesti».
Salire sul podio e dirigere il gruppo è importante, quando poi ti metti a scrivere?
«Direi fondamentale, il doppio ruolo dà effettivamente una prospettiva molto diversa. Si capiscono meglio i meccanismi interni di una partitura e anche le possibilità di ottimizzare i mezzi in vista delle esecuzioni. Anche perché poi il tempo delle prove è sempre limitatissimo, un po’ ovunque».
Come nasce una stagione di musica del nostro tempo?
«Programmando con grande cura. Ci sono i contatti con gli autori che scrivono ovviamente, ma c’è soprattutto il lavoro di scavo, in rete. Su YouTube c’è tantissimo, io cerco sempre di capire i compositori, le tendenze, le forme».
Dove va la produzione contemporanea?
«In mille direzioni diverse, una babele. Non c’è più una tendenza, ce ne sono a centinaia e questo è il bello, come un mondo in cui si parlano lingue diverse. Ogni musicista segue la sua strada (serialismo, postminimalismo, postromanticismo, rapporti più o meno fecondi con la musica popolare) anche perché i grandi maestri del passato sono scomparsi e i pochi che sono rimasti hanno più di 80 anni».
Oggi non esiste più una tendenza dominante.
«Appunto, siamo tutti precipitati in un gigantesco presente dove convivono molti idiomi, in modo fluttuante e creativo. E bisogna sempre avere le antenne ben allertate, per ascoltare sempre di tutto».
La «vecchia avanguardia» ha avuto innegabili colpe.
«Soprattutto mi infastidisce il fatto che la si identifichi ad un mondo che ormai ha più di 60 anni. Come si può parlare di ‘avanguardia’ per autori o brani del dopoguerra? L’Europa era appena uscita dalla guerra, nelle case c’erano ancora le prime tv in bianco e nero».
Adesso a che cosa stai lavorando, come compositore?
«A tanti fronti. Curiosamente, le due ultime partiture vertono sul mondo delle percussioni: un pezzo che sarà eseguìto a maggio dai Percussionisti della Scala e un Concerto per percussioni battezzato nel 2020. Ma ci sono altre cose che si sovrappongono: sono reduce giorni fa da uno spettacolo andato in scena al Filodrammatici di Milano con musiche mie: Ritratto di Dora M a cura di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia».
La realtà del pop-rock ti interessa?
«Ora non molto. Il mio dna rock è stato scolpito dai Beatles e dai Rolling Stones, ma sono stato anche un grande appassionato di King Crimson, Genesis, Jethro Tull. Eppure non mi sembra che il rock oggi sia messo molto bene, non vedo in giro molte cose interessanti. Il jazz invece è diverso, c’è molta più vivacità. Del resto sul jazz ho scritto un libro in cui parlo dei miei amori».
Di Sanremo cosa pensi?
«Non l’ho seguito, ero sempre in prova per la settimana-Vacchi alla Verdi. Ho saputo che ha vinto questo ragazzo (Mahmood) che fa del rap, ma non mi convince. Il rap italiano mi fa ridere, perché ha a che fare con una lingua troppo dolce e piena di vocali. Diventa quasi qualcosa di umoristico. Gli esempi americani invece li ho spesso trovati straordinari».
Ascolti sempre di tutto?
«Certo e in ogni direzione. Per me l’ascolto è una specie di bulimia, che va dalle 7 del mattino alle 2 di notte. Mi metto la cuffia quando sono in coda alla posta, per strada o seduto in studio. E se non c’è musica nella stanza, me ne costruisco una nella testa. Per me è come l’ossigeno, che mi permette di respirare. Sono persino capace di scrivere un pezzo mio e seguire qualcos’altro in audio, le due aree diverse del cervello funzionano indistintamente. Posso scrivere qualunque cosa e fare benissimo dell’altro».
Dunque non ti sorbisci soltanto le novità.
«Niente affatto. Vado dai dischi di folk del ‘900 a Mendelssohn, da dischi stranissimi di violinisti jazz anni Dieci magari a Schoenberg, Verdi, John Cage, magari Ivano Fossati e così via».
Un ascolto compulsivo. Ma c’è qualcosa che ti precludi?
«Sì, a differenza di altri, i dischi li ascolto per intero. Se metto un cantautore italiano lo ascolto tutto, se decido per l’White album dei Beatles lo stesso. Non credo alla cultura della playlist, un minuto e mezzo e via. E non mi piace la frammentazione sonora».
Hai altre grandi passioni?
«Molte altre. Il cinema lo fruisco in modo simile. Sono, come dire, un completista. Ultimamente ho visto interi spezzoni di film francesi – tutto Truffault, tutto Tati, tutto Jean Vigo – infilandoci magari dentro l’opera di Terry Gilliam. Mentre lavoro mi spalmo per intero le filmografie. Ma c’è anche il teatro, che purtroppo non frequento molto per ragioni di tempo e naturalmente la lettura. Sono un lettore voracissimo, ultimamente mi sono preso i Racconti di Kurt Vonnegut: 900 pagine, sembra che pesi un quintale. Non solo, ascolto anche tanti audiolibri. Del resto la casa in cui vivo con la mia compagna sembra un magazzino. Pile e pile di volumi».
Dopo il libro su 12 Storie di dischi irripetibili in cui ti sei messo alla caccia di registrazioni rare, hai in cantiere qualcos’altro come scrittore?
«Sì, ce ne è un ottavo in uscita e sto preparando il nono e il decimo, e uno di questi è una riflessione sul fare (e fruire) musica oggi. Ma non posso anticipare nulla purtroppo, è tutto top secret».
Insomma una vita incredibilmente piena, dopo un passato in cui hai fatto il percussionista per tantissime orchestre italiane.
«Sì. Fino agli anni Novanta. Evidentemente ero anche bravo, se tutti mi chiamavano. Ho ricordi incredibili, in Scala diretto da Lutoslawski e altrove con grandissime personalità come Luciano Berio. Ma a un certo punto ho smesso. Troppo faticoso, non mi andava di fare il facchino, montare e smontare continuamente il set di strumenti».
Un sogno per la terza vita?
«Non ci puoi credere: la pensione. Sai che bello, stare a casa tutto il giorno a guardare film e ascoltare musica. Ma con questa storia di quota 100 non prenderò mai niente».
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