Curata da Anna Maria Bava e Maria Grazia Bernardini, la mostra è ospitata nelle Sale Palatine della Galleria Sabauda: 45 dipinti e 21 incisioni ripercorrono l’attività di Van Dyck nelle corti europee. Organizzata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la mostra è patrocinata dalla Regione Piemonte e dalla Città di Torino. Visitabile ai Musei Reali, fino al 17 marzo 2019.
TORINO. Raffinato pittore di corte, da quella torinese dei Savoia a quelle inglesi di Giacomo I e Carlo I, passando per i Medici a Firenze, Antoon Van Dyck (1599-1641) fu uno dei maestri della pittura di corte del Seicento, imbevuto di cultura spagnola respirata nelle natie Fiandre, all’epoca dominio di Madrid. E fu forse questa la sua sfortuna, che lo condannò a essere tagliato fuori dalla modernità sociale dell’Europa del Nord; nato in Paese protestante, chissà cosa il suo talento avrebbe potuto donare all’umanità se fosse stato messo al servizio di un’arte popolare e borghese, tesa a raccontare la realtà sociale dell’epoca. Nato ad Anversa alla fine del XVI Secolo, dimostrò sin dall’infanzia passione e talento per la pittura, e a dieci anni fu allievo nella bottega di Hendrick van Balen, dal quale si allontanò appena quindicenne per lavorare in proprio, assieme a Jan Brueghel il Giovane. Poiché, però, nel 1617 ebbe occasione di collaborare con Pieter Paul Rubens, lasciò la sua propria bottega per divenirne allievo, la cui influenza fu per lui importante, al pari di quella che avrebbero esercitata su di lui i pittori italiani del Rinascimento. Che scoprì nel corso di un lungo soggiorno in Italia, dal 1621 al 1627. Anche se ormai era decaduta dal suo ruolo di fucina innovatrice dell’arte europea, il suo recente e glorioso passato faceva della Penisola un luogo di riferimento, un punto di partenza obbligato per chiunque volesse fare arte in Europa. Dalle Fiandre natie, mosse quindi per l’Italia, passando da una regione all’altra dell’immensa zona d’influenza spagnola in Europa. Nel corso della sua lunga permanenza, Van Dyck soggiornò a Torino, Firenze, Roma, Mantova, Venezia, e nel suo Taccuino italiano riprodusse in decine e decine di disegni le opere di Giorgione, Raffaello, Guercino, Carracci, Bellini, Tintoretto, Leonardo, Tiziano, che poté ammirare nelle collezioni delle famiglie regnanti, così come in quelle di cardinali e altri personaggi di rango che ebbe la fortuna di conoscere e frequentare; fra i luoghi che più lo impressionarono, Palazzo Ludovisi e Villa Borghese a Roma, autentici musei del Rinascimento. Questo per specificare come, pur ormai decaduta e oppressa dalla retrograda e conservatrice dominazione spagnola, l’Italia continuava ancora a fare scuola nel mondo della cultura. Ma a Roma Van Dyck scelse l’ambiente della corte papale e dei salotti cardinalizi, non si unì ai suoi colleghi fiamminghi che avevano dato vita, sulle tracce di Caravaggio, ai Bentvueghels, e fra bordelli e taverne raccontavano la realtà sguaiata e festaiola del popolino; al contrario, Van Dyck, personalità raffinata ma anche un po’ snob, scelse di seguire una carriera di sicuro successo economico, anche se costretta all’agiografia e all’adulazione.
Punto di partenza della mostra, il nucleo di opere di Van Dyck presenti nella Galleria, già appartenute alla collezione dei Savoia, cui si aggiungono i ritratti eseguiti a Genova, fino a quelli per la corte inglese. Un ideale, affascinante viaggio per l’Europa cattolica dell’epoca, oltre che nella raffinata pittura di Van Dyck. Pittore di indiscusso talento, lo mise però al servizio della “corte”, e non della committenza privata. L’Europa cattolica, in questo momento, è socialmente meno evoluta rispetto a quella protestante, e lo rimarrà almeno fino alla Rivoluzione Francese di un secolo e mezzo più tardi. In particolare in Italia (dove Van Dyck costruì la sua luminosa carriera), a causa dell’involuzione feudale causata dalla dominazione spagnola, il ceto medio era quasi scomparso (tranne alcuni scampoli a Genova e a Venezia), a differenza di quanto era accaduto nei Paesi toccati dalla Riforma Luterana, dove invece si era moltiplicato e rafforzato, dando l’adito a quella borghesia imprenditoriale che porterà contributi importanti allo sviluppo sociale dell’Europa del Nord. Nato e cresciuto nelle Fiandre cattoliche, rigidamente legate al dominio spagnolo, Van Dyck vedeva nella corte l’unico sbocco alla sua carriera di pittore. E di questa forma mentis risentì appunto la sua carriera. L’impostazione dei ritratti, si veda Anton Giulio Brignole e il Principe Tommaso di Savoia, è ancora di stampo feudale, legata all’immagine del cavaliere della Reconquista. Ritratti scenografici, celebrativi, imponenti, profondamente barocchi, nei quali manca però (per cause di forza maggiore, e non per imperizia artistica), l’anima vera dei soggetti. Lasciata in ombra com’è dall’eleganza degli abiti, dei merletti, dei ricami, dei gioielli, delle acconciature, rese con certosina perizia che destava l’ammirazione dei suoi committenti. E ancora, il volto altero della Marchesa Grimaldi Cattaneo, abbigliata di funereo nero spagnolesco, e seguita da un paggio di colore, a ribadire la supremazia dell’Europa cattolica (o meglio della Spagna), sulle popolazioni amerinde.
(In copertina: Antoon Van Dyck, Vertumno e Pomona, 1628-30 ca., Musei di Strada Nuova, Genova)
Nessun Commento