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7 Feb

Jean Dubuffet, l’arte in gioco

A Palazzo Magnani, una mostra curata da Martina Mazzotta e da Frédéric Jaeger celebra l’inventore dell’Art Brut, attraverso 140 opere fra dipinti, disegni, grafiche, sculture, libri d’artista, dischi e una selezione di 30 opere dei suoi seguaci. Fra colori accesi e forme meravigliose, si dispiega agli occhi del pubblico il fantastico “gioco dell’arte”. Fino al 3 marzo!

Jean Dubuffet, Station de plaisance, 1980, © 2018 Adagp, Paris Siae, Roma

Jean Dubuffet, Châtelet d’arbustes, 1971, © 2018 Adagp, Paris Siae, Roma

REGGIO EMILIA. Se c’è una corrente artistica che è uscita dalle categorie e si è aperta verso la società, questa è stata sicuramente l’Art Brut. Nel definire questa nuova categoria, nel lontano 1945, Jean Dubuffet (1901-1985) intendeva rendere giustizia a tutta quella creatività sviluppatasi al di fuori dei vari “ismi”, delle accademie e di ogni tipo di scuola, per ricondurre il genio artistico alla sua fonte originaria: quella dell’immediatezza dell’intuizione, senza mediazioni e corruzioni accademiche. Sin dai suoi esordi pittorici, Dubuffet guarda con interesse a Fernand Léger, e soprattutto all’arte primitiva dei vari continenti. Ad affascinarlo, non tanto le questioni formali come era stato il caso dei Cubisti, quanto la capacità dell’arte di estrapolare quelle voci interiori della personalità dell’artista, di fissare sulla tela quell’alchimia di emozione e materiale che un po’ ricorda la pioggia che si unisce alla polvere del deserto. Magie che riusciva a ottenere solo un “pittore-artigiano-alchimista” come lui stesso si definiva, capace di riscoprire il concetto greco di τέχνη (téchne), ovvero di arte nel senso di perizia, capacità di fare; concentrandosi sul metodo, coglie l’aspetto ludico dell’arte, e letteralmente la libera da qualsiasi costrizione accademica. Nella sua pittura non esistono regole, né formali né concettuali; l’opera di Dubuffet è incentrata su un immaginario fatto di idoli primitivi, bizzarrie umane e naturali, libere associazioni di forme e colori; e un’instancabile dedizione alla sperimentazione di materiali differenti, dal bitume alla vernice, dalla paglia alla polvere di vetro; ciò che è rozzo, inelegante, inadeguato, viene invece elevato a manifestazione artistica, sempre dignitosa in quanto espressione di una personalità, di particolari emozioni, aspirazioni o sofferenze che siano.

C’è un senso di meraviglia in queste opere, nel modo in cui guardano alla realtà e sembrano stupirsi di ciò che nasce sulla tela. Un piccolo “mirum” montaliano, che permette all’artista e al pubblico di vagare in quella dimensione dell’”inutile” che custodisce emozioni segrete, stati d’animo complessi, o semplicemente l’urgenza di liberare energia. Aspetti che il Surrealismo aveva già espresso in parte, e non fu quindi un caso che André Breton fosse al suo fianco quando Dubuffet fondò la Compagnie de l’art brut, propugnatrice di un’arte spontanea, senza pretese culturali e senza ragionamenti alle spalle, un’arte capace di abbattere le barriere, fisiche e mentali, che separano gli individui: barriere di pregiudizi, di malvagità, di violenza.

Jean Dubuffet, Ostracisme rend la monnaie, 1961 © Adagp, Paris, 2010

In quest’ottica, assume una doppia valenza la serie di litografie Les murs, realizzata nel 1945-1950, allusione alle mura dei manicomi, ma anche ai lager nazisti appena liberati. L’Art Brut sfiora orizzonti infiniti e ineffabili sofferenze interiori, e lo fa sempre con levità  e innocenza: quelle esplosioni di colori tradiscono un’incontenibile energia vitale che sgorga sulla tela non trovando, spesso, altre vie per essere espressa e sfogata. L’Art Brut è un’arte “difficile” in quanto ha a che fare con l’armonia del corpo e dell’anima, un’armonia non convenzionale, non riscontrabile a livello visivo ma intuibile nella possibilità, che l’arte offre, di raggiungere un universo organicamente completo, fatto di materia e antimateria, di caso e ordine, di urla e di silenzio, di luce e di ombra. Tutto questo si ritrova nelle opere di Dubuffet e dei suoi “seguaci”, caratterizzate da una certa vicinanza concettuale con il pensiero e il teatro di Antonin Artaud, fautore di un teatro fisico e catartico, che lasciava libero l’attore di liberare il gesto, così come Dubuffet faceva sulla tela, o plasmando la materia delle sue sculture.

La mostra ripercorre tutta l’opera di Dubuffet, i cui esordi risalgono alla prima metà degli anni Quaranta, quando la passione per la pittura ha il sopravvento e lo spinge a lasciare l’impiego di supervisore dell’azienda vinicola che la famiglia possedeva in Argentina. In quel fatidico 1945, con l’Europa, e il mondo intero, ridotti in macerie materiali e morali, Dubuffet avvertì l’esigenza di ricominciare da un’arte completamente nuova, un’arte figlia della tragedia ma che avesse in sé l’impeto della rinascita. Dubuffet non ha inventato un metodo o fondato un movimento organico, il suo merito è quello di aver fermata l’attenzione su quelle pratiche creative meno ortodosse e averle classificate come arte; scoprì un gran numero di artisti che fino ad allora non sapevano di essere tali, come Aloïse Corbaz,  e rivalutò Adolf Wölfli scomparso quindici anni prima. La mostra propone un’ampia selezione di artisti dell’Art Brut, e riesce a far comprendere al visitatore la ramificazione di un movimento che all’apparenza sembra minore, ma che in realtà ha avuto esponenti autorevoli e prodotto opere d’arte di notevole interesse, oltrepassando quelle barriere che nessuno, prima di Dubuffet, aveva osato sfidare.

 

(In copertina: Jean Dubuffet, Site avec 2 personnages, E 491, 1982, © 2018 Adagp, Paris Siae, Roma)

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