Cos’hanno in comune un copricapo tirolese e un capello Chanel? E un plastron bretone con una giacca di Jean-Paul Gaultier?
Per avere la risposta, l’indirizzo da segnare in agenda è Promenade Robert Laffont, sede del Mucem di Marsiglia. È qui che fino al 6 novembre è ospitata la mostra Fashion folklore: Costumi popolari e Haute couture che, con quasi 300 creazioni provenienti dall’archivio del museo, oltre che da collezioni francesi e straniere, tenta di svelare il nesso tra tradizione e couture, tra costume e moda. Perché i termini, in realtà, sono teoricamente distanti: l’ultima, la moda, è schizofrenica, una sequela di variazioni mutevoli e passeggere legate al gusto del momento. Il secondo, il costume, dal canto suo è tutto fuorché effimero, essendo la foggia prediletta da un determinato gruppo, in una specifica epoca e in un preciso luogo.
Com’è allora che i due fornicano da tempo immemore? Quando è accaduto che il recupero di usanze, forme e simbologie locali si è fatto messaggio globale? E no, non parte tutto dagli hippie (che pure diedero man forte) ma da molto, molto prima. Un tale di nome Charles Frederick Worth, ad esempio, già sul finire dell’Ottocento utilizza stoffe giapponesi per realizzare i suoi Tea Gown tutti stecche di balena e crinoline. Ma l’apogeo dell’esotismo spetta a lui, allo “stilista sultano”, com’è stato efficacemente etichettato da qualcuno, Paul Poiret che nei primi del Novecento, incantato dai Ballets Russes, inizia a reinterpretare sarong e kimono, pantaloni alla turca e caftani.
Nel farlo, libera anche la donna da imbracature varie ed eventuali, non troppo però perché per rimanere fedele al caro Oriente finisce per concepire, nel 1910, la jupe entravé, di fatto una gonna lunga e stretta alle caviglie, così tanto da impedire l’incedere. La sua passione per il repertorio asiatico, culmina anche in una sontuosissima Fête de la mille et deuxième nuit, una mascherata folk che è negli annali di storia della moda, eppure oggi, probabilmente, non passerebbe il vaglio dell’appropriazione culturale. E chissà come i giornalisti del 2023 giudicherebbero la collezione Russa concepita da Yves Saint Laurent nel 1976. All’epoca, sulle pagine dell’International Herald Tribune si leggeva: “una rivoluzione, la sfilata più teatrale e sontuosa che si sia mai vista a Parigi”. Turbanti e colbacchi, soprabiti con alamari e abiti profilati d’oro sortirebbero lo stesso effetto? Non è dato saperlo, ma nei Settanta il successo è immediato, e lo stile gipsy inaugurato nei festival dai figli dei fiori, abbandona il côté zingaro per abbracciare definitivamente quello deluxe.
È invece una geisha couture, quella immaginata da John Galliano per Dior nella collezione Madame Butterfly della Primavera Estate del 2007, una visionaria reinterpretazione dell’opera di Giacomo Puccini con abiti, maquillage e accessori realizzati con una minuzia da togliere il fiato e assicurarsi l’unanime plauso come solo il Dior by Galliano poteva.
È andata un po’ meno bene, in tempi più recenti e sempre a proposito di commistioni tra costume e moda, a Marc Jacobs che nella Spring Summer del 2017 fa sfilare, coadiuvato dall’hairdresser Guido Palau, un défilé di modelle bianche con coloratissimi dreadlock, capigliatura simbolo del rastafarianesimo che genera una levata di detrattori social che accusano il designer di insensibilità razziale.
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