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29 Gen

Le atmosfere da film di Edward Hopper

“Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere”. Lo raccontano schivo, Edward Hopper, questo omone alto un metro e novanta che non amava parlare del proprio lavoro, nato e cresciuto in una piccola cittadina nello Stato di New York, a Nyach nel 1882, e scomparso all’età di 84 anni nel 1967, oramai celebrato come un grande classico della pittura americana del Novecento. Poche parole e pochi soggetti nei suoi quadri, ariosità, grandi spazi. La predilezione per il campo medio, illuminazioni da set ed esterni giorno grandangolari, inquadrature dall’alto, zoom sui dettagli, le sue donne solitarie e pensose. Scene urbane e di vita quotidiana da riempire con la fantasia di ciascuno. Attimi cristallizzati nel dipinto, come fotogrammi, da cui poter partire con una cinepresa per narrare una e più storie.

Ingresso della mostra al Vittoriano

Un fine disegnatore, come mostrano i suoi schizzi preparatori e le incisioni, a cui è dedicata una sezione della mostra di Roma (sei sezioni in tutto: ritratti e paesaggi, disegni preparatori, incisioni e olii, acquerelli e le immagini di donne) ospitata al Complesso del Vittoriano e curata da Barbara Haskell del Whitney Museum of American Art, in collaborazione con Luca Beatrice. Ma soprattutto un pittore a cui il cinema ha strizzato spesso l’occhiolino, come spiega una sezione del tutto inedita, dedicata all’influenza di Hopper sulla settima arte e nei film.

Second Story Sunlight 1960 hopper

Second Story Sunlight 1960

“I dipinti di Hopper sono sempre l’inizio di una storia” riassume la voce narrante del breve documentario proiettato nelle sale dell’esposizione capitolina, prima di svelare alcune corrispondenze, parlando di un pittore che inventa un modo di guardare, una maniera di stare del quadro che ha qualcosa di filmico prima ancora che pittorico. Ecco allora Hitchcock con gli interni scrutati dall’esterno, come ne’ La finestra sul cortile, o la casa di House by the Railroad (1925) che ritroviamo in Psyco. Profondo Rosso di Dario Argento e l’ispirazione dal quadro Nighthawks per la sequenza del bar. Al pari dei riferimenti hopperiani compiuti da Michelangelo Antonioni ne’ Il Grido, Deserto rosso e L’eclisse. Di David Lynch, in Velluto blu e Mullholland Drive. Todd Haynes in Lontano dal Paradiso e i fratelli Coen in L’uomo che non c’era. Robert Altman ammette di aver studiato le solitudini ritratte dal pittore americano. Per finire a Wim Wenders, che apertamente dichiara il suo amore per Hopper come maestro dello sguardo, uno per tutti in Paris Texas (dove anche qui la citazione è per Nighthawaks).

Soir Bleu 1914 hopper

Soir Bleu 1914

Dopo la tappa di Bologna, arrivano così a Roma circa 60 capolavori dipinti da Hopper tra il 1902 e il 1960, prestati eccezionalmente dal Whitney Museum di New York, tra cui: Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), New York Interior (1921), South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), nonché l’olio su tela di circa due metri Soir Bleu, lavoro parigino del 1914. Tutto questo consente sia resa tangibile al pubblico – spiegano gli organizzatori – la “vera e propria “cifra hopperiana”, ereditata in molteplici campi dell’espressione visiva: nella pittura come nel cinema, nella fotografia come nell’illustrazione, e poi ancora nella pubblicità, in tv, nelle copertine di dischi e riviste, nei fumetti e nel merchandising”.

La mostra “Edward Hopper” è visitabile fino al 12 febbraio a Roma presso il Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere – www.ilvittoriano.com – 06.8715111

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