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16 Nov

Luca Formenton si racconta, parlando di musica e cultura

Forse il destino era già tutto scritto nella genesi del cognome. Quel Formenton che a ben vedere si può tradurre dal tedesco con «suono della forma», la struttura di un edificio musicale paragonabile alle cattedrali di note costruite da Wagner, Brahms e Mahler. Non è un caso dunque che Luca Formenton – italianissimo, nato a Milano nel ’53 – abbia sempre avuto un amore viscerale per la musica, con una forza che poi si è riflessa in molti atteggiamenti concreti. Luca è da più di un quarto di secolo presidente della casa editrice ilSaggiatore fondata dallo zio Alberto Mondadori nel ’58, ha ideato Diario con Enrico Deaglio, vestendo il ruolo di docente in Editoria e Giornalismo Culturale alla Sapienza di Roma. Oggi però, oltre ad essere fra gli artefici di Bookcity (la manifestazione con centinaia di eventi che termina fra qualche ora a Milano) può certamente brindare al successo della Filarmonica di Milano, la nuova orchestra coniata anche con l’abbreviazione di LaFil di cui è stato fra i recenti fondatori e adesso è il massimo reggente nel ruolo sovrano di presidente. Ecco allora che la vecchia passione per la musica ha un suo perché. Proprio lui infatti ha iniziato da bambino con questo grande amore. Totale, dilagante, vagamente contagioso. Prendeva dai ripiani della biblioteca di casa i vecchi 33 giri con le Sinfonie di Mozart e Beethoven. Poi li metteva nel giradischi, saliva pazientemente sullo sgabello del soggiorno e iniziava a muovere nell’aria la matita-bacchetta, pensando di avere sotto di sé uno stuolo di orchestrali. «In verità l’amore per la musica non è frutto di eredità familiari» specifica adesso, lui che pure ha avuto un nonno come Arnoldo Mondadori fra i suoi avi. «A parte il fatto che una mia bisnonna cantava nel coro del Teatro Colón a Buenos Aires. E poi va detto anche che lo zio Alberto, in Mondadori faceva qualche trasferta accompagnando l’amico Gianandrea Gavazzeni quando era in giro per concerti».

Lei invece?

«Di certo io ho sempre avuto questo tarlo. A 6 o 7 anni dirigevo appunto sullo sgabello di casa mia, ma poi da ragazzo sono finito anche a studiare pianoforte al Conservatorio di Verona. Ricordo ancora il mio maestro che si chiamava De Mori e s’incazzava se soltanto mi sedevo al pianoforte per fare tutto ad orecchio. Un po’ tipico dei vecchi insegnanti, oggi non andrebbe più così. Improvvisare ad orecchio è un merito. Alla fine però la vita mi ha fatto approdare verso altri lidi».

Qualche rimpianto le sarà rimasto.

«Assolutamente, anche se per diventare musicista c’è bisogno di uno studio matto e disperatissimo, come quello di Verdi. Ma soprattutto mirato. Io invece sono sostanzialmente un eclettico, mi piace occuparmi di tante cose. Però certo, mi piacerebbe ad esempio stare tre giorni di fila alla Scala per sentire le prove. D’altro canto quando da ragazzo andavo al Piermarini non mi sono mai fatto mancare niente».

Ad esempio?

«Ricordo le prove di un formidabile Otello di Verdi diretto da Kleiber, ma di suo anche Tristano e Il cavaliere della rosa. Impossibile poi dimenticare il Mahler diretto da Claudio Abbado. Come anche un contestatissimo concerto di canto di Montserrat Caballé, splendida cantante, ma contestatissima dai loggionisti in quanto aveva appena disertato una recita di Turandot. Il pubblico se l’era presa parecchio e lei finse apposta di inciampare sulla scena, continuando a gorgheggiare un’aria di Rossini. Era una grandissima donna di spettacolo, un personaggio meraviglioso. Portava sempre la brioche ai loggionisti che facevano la fila».

Allora come adesso qualche cantante si buttava nella regia.

«Sì, con esiti alterni. Ricordo I Vespri siciliani al Regio di Torino, a dare indicazioni in scena nel ruolo di regista c’era addirittura Maria Callas. Spettacolo piuttosto bruttino, anche se lei alla fine si presentò davanti al pubblico sfoggiando il solito alone di charme e di fascino».

Dunque un po’ alla volta la musica è entrata comunque nella sua vita.

«Sì e oggi devo dire che molti libri de ilSaggiatore sono riflessioni, testimonianze, ma anche veri e propri saggi importanti di musica. Si va da Rossini a Mahler e John Cage, fino all’ultima bio su Toscanini scritta dall’amico Harvey Sachs».

Toccate anche il jazz.

«Certo, siamo appena usciti con un libro Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, che parla dell’influenza che questa musica ha avuto sull’Occidente. Prima ancora c’era stato Improvviso singolare di Claudio Sessa, che spazia dalle origini fino ai nostri giorni. E in futuro avremo due o tre titoli importanti».

Musica e editoria possono andare a braccetto?

«Sono convinto di sì, ne ho parlato l’anno scorso anche in un convegno alla Scala. Certo. È impensabile pensare di vendere centinaia di migliaia di copie con un saggio, ma bisogna essere coerenti e in fondo la nicchia non è neppure così piccola. Poi bisogna fare le scelte giuste. Anni fa ho rifiutato di pubblicare un libro su Bob Dylan perché parlava solo delle sue vicende personali e di pettegolezzi, senza concentrarsi sulla musica. Tempo dopo ne ho intercettato uno in giro che rivisita Dylan e i suoi legami con il blues americano. Ecco, questo è il mio punto di vista, il prodotto ideale per il nostro lettore».

Negli ultimi mesi il suo nome è affiorato per via di questa nuova orchestra, che ha debuttato con Daniele Gatti a Milano e poi è tornata con una maratona brahmsiana a fine ottobre, in Conservatorio.

«E’ un’orchestra che scommette anche su una certa indipendenza economica. Ad esempio c’è la possibilità per un privato di adottare un singolo leggio d’orchestra o addirittura l’intera sezione. Questo per noi vuol dire svincolarci dai lacci pubblici e coinvolgere gli ascoltatori, cercando di fidelizzarli nel tempo».

Progetto molto ardito, quasi temerario.

«Certo, ma prevede la stessa cosa che ho contribuito a fare nell’editoria milanese con BookCity, cioè quella di andare direttamente ai cittadini con un movimento verso l’esterno che si allarghi a cerchi concentrici».

Le ambizioni della Fil sono sotto gli occhi di tutti. Ad esempio quella di creare una solida rete di residenze, fra l’Italia e l’estero, che faccia da corollario all’impegno del Comune di Milano, visto che da primavera avrà la sua sede stabile al Teatro Lirico.

«Non pensiamo solo al Lirico, ma ai contatti con Bruxelles (siamo pur sempre un’orchestra europea) e magari in futuro gli Stati Uniti».

Milano caput mundi.

«Sarà banale dircelo in questi giorni, ma se la città fino a pochi anni veniva identificata con la fuliggine del mondo industriale, la nebbia e il grigiore imperante fino a pochi anni fa, oggi è diventata una delle città più attraenti d’Europa. Il brand vale molto di più, possiamo giocarcelo al meglio»

Come è nata questa nuova orchestra?

«Ho un vecchio amico, lo scrittore Ferruccio Parazzoli, che ha casa in Liguria nel Tigullio, dove pure io mi rifugio durante l’estate. Suo figlio Carlo Maria, violino di spalla dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ha avuto l’idea di quest’orchestra insieme al violista Roberto Tarenzi, allo stesso Gatti e al giovane direttore Marco Seco. Me ne hanno parlato, spiegandomi a grandi linee il progetto e dopo un po’ di tempo siamo riusciti a farlo lievitare».

Il modello al quale vi siete ispirati?

«Una specie di incrocio tra le orchestre giovanili come la ‘Mahler’ e una creatura sinfonica fatta di prime parti mondiali: strumentisti fantastici che già suonano nelle filarmoniche o nei teatri d’opera di Francia, Stati Uniti, Germania, Austria. Dove dunque i più giovani possano avere la possibilità di suonare al loro fianco, con un’esperienza sul campo unica al mondo».

Ci saranno idee e progetti molteplici.

«Al momento non abbiamo contributi pubblici, però ci hanno dato gli spazi e ci avvaliamo di una convenzione di 3 anni quando il Lirico sarà finalmente pronto. Poi sono in contatto con la Regione e altri enti, per creare qualcosa anche sul territorio».

Il nome non ha mancato di creare qualche malumore.

«Ovvio che non vogliamo fare concorrenza diretta con nessuno. E’ un nome venuto fuori dopo un brain storming di una settimana e ci è sembrato subito molto spigliato, in linea con quello che volevamo fare. Poi sarebbe stupido fare la guerra a qualcuno, specie in una città come Milano. Pensiamo sempre ad altre città europee, che hanno ben più di una compagine orchestrale».

Siete partiti subito con Gatti.

«Sì, e in futuro vi affiancheremo altre bacchette, tutte di primo livello. Daniele è molto coinvolgente, ma non sarà l’unico».

Lei in questi anni ha mostrato anche molta sensibilità sul fronte del sociale.

«Sì, con l’amico don Colmegna abbiamo realizzato diverse cose utili. Adesso ad esempio abbiamo appena fatto partire #LaMusicaOltre: l’orchestra raccoglie fondi per organizzare concerti, corsi e altre iniziative tra scuole, centri di accoglienza e di aggregazione nella periferia di Milano. Proprio dove l’offerta di attività legate alla musica classica è ancora scarsa».

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