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7 Apr

Mimmo Locasciulli, musica come medicina

Musica e medicina, sono stati (e lo sono ancora), l’anima di Mimmo Locasciulli. Due discipline che, come dice il cantautore, pur se decisamente distinte, trovano anche punti di contatto. Così se la professione medica l’ha portato a una brillante carriera, e a dirigere un reparto importante dell’ospedale Santo Spirito di Roma, quella musicale è stata una passione nata fin da bambino, che l’ha reso uno dei protagonisti nell’ambito della scena musicale italiana, con una carriera lunga quasi cinque decenni. Abruzzese originario di Penne, Locasciulli iniziò ad avere le prime esperienze musicali alla fine degli anni Sessanta, suonando in gruppi beat e rock. Poi grazie alle frequentazioni con musicisti europei e americani incontrati a Perugia, dove studia medicina, si avvicina alla musica folk e folk-rock. Trasferitosi a Roma nel 1971 ha l’occasione di esibirsi al Folkstudio, il locale in cui hanno mosso i primi passi anche Antonello Venditti e Francesco De Gregori; e proprio con loro inizia a collaborare. Quattro anni dopo, proprio per l’etichetta “Folkstudio” pubblica il suo primo album (Non rimanere là), cui seguiranno altri 14 dischi (alcuni prodotti dallo stesso De Gregori). Ultime fatiche di Locasciulli sono un libro autobiografico (Come una macchina volante) edito da Castelvecchi, e l’album Cenere (per l’etichetta Hobo), alla cui realizzazione hanno collaborato suo figlio Matteo, Enrico Ruggeri, Pacifico, Büne Huber (front-man e anima dei Patent Ochsner, rock band svizzera), Fabrizio Bosso e Awa Ly (giovane cantante franco-senegalese). Dal suo nuovo lavoro discografico parte la chiacchierata che ci ha concesso.

Un nuovo disco di inediti dopo 9 anni di silenzio, cosa ti ha spinto a registrarlo?
«Non ho mai adottato una sorta di calendarizzazione della scrittura e dell’uscita dei miei dischi, voglio dire che non seguo alcuna regola strategica. Né, tantomeno, ho mai subito pressioni da parte dei miei discografici. Il mio rapporto con la musica non prevede una frequentazione routinaria o organizzata del tipo: sto nel mio studio tot ore al giorno, ascolto musica di altri, provo a scrivere qualcosa, leggo libri ecc… Non riuscirei a scrivere neanche una nota o una riga di testo.
Le mie canzoni nascono da un richiamo di ordine ispirativo e, quindi, devo solo aspettare il segnale. A volte arriva dopo breve tempo dall’ultimo lavoro, un anno, due. A volte, come in questo caso, arriva dopo una lunga pausa. In definitiva, mi sento uno spirito libero in un mondo che forse ancora non ho compreso in pieno».

Hai scelto di accompagnare le tue parole con sonorità che arrivano dal rock-folk, jazz, blues, elettronica, come se fosse un piccolo riassunto di quello che è venuto prima…
«Anche in questo caso non ho voluto darmi una regola. In genere, quando cominciavo a scrivere le canzoni per un nuovo album, inconsciamente si instaurava una sorta di meccanismo selettivo. Nel senso che se un’idea di canzone andava in direzione diversa dalla cifra stilistica che immaginavo, mi fermavo e la mettevo nel cassetto. Magari per poterla utilizzare in seguito. Ma con questo sistema credo di aver smarrito diverse canzoni, lasciate chissà dove e mai più trovate. Per questo lavoro, dall’inizio, ho deciso di lasciare tutte le finestre aperte. Nessuna analisi preventiva, nessuna censura. Se arrivava un’idea di canzone con un’impronta folk avrei continuato a svilupparla secondo quella direzione. Così pure se fosse arrivata un’idea con le caratteristiche del rock o del blues».

In alcune canzoni il disco pare pervaso da un senso di pessimismo legato alla contemporaneità, con uno sguardo proiettato a quello che è stato più che a una visione del futuro. È una sensazione o una volontà precisa?
«Ho sempre inteso il cantautore, nella sua accezione più completa, come il testimone e il narratore del tempo che vive. In questo senso avverto un certo fastidio quando mi soffermo su alcuni aspetti di questa contemporaneità. Ho vissuto un tempo in cui molti valori etici e morali venivano insegnati e rispettati. Educazione, rispetto per il prossimo, tolleranza, testimonianza, accoglienza, partecipazione, lealtà… Il mondo era più bello. Oggi sembrano merce rara e chi ancora rispetta quei valori viene sovente deriso, altre volte ne viene penalizzato. Quello che vedo è un mondo che fatico ad accettare. Mi manca il calore umano, quello vero. A tutti i livelli. Non sono pessimista e non vivo di passato. Mi limito a raccontare come vivo questo tempo».

All’ascolto si percepisce una estrema cura negli arrangiamenti dei brani, come avete lavorato per la realizzazione sonora del disco?
«La costante di questo lavoro è l’assoluta libertà. Tutto il disco è stato realizzato da me e da mio figlio Matteo, con il preziosissimo contributo dei musicisti presenti. Matteo vive e lavora a Parigi, dove ha un suo studio di registrazione: scrive e realizza musiche per televisione, documentari, cinema ecc. Ci sono delle canzoni pensate interamente da me, in cui ho praticamente elaborato tutti gli arrangiamenti, canzoni di cui Matteo ha scritto la musica, che quindi hanno seguito una sua visione di arrangiamento, e canzoni scritte insieme in cui si sono fuse le nostre due diverse anime. Ma tutti e due avevamo la stessa finalità artistica, magari andando controcorrente: realizzare un disco che non si accontentasse del minimo sindacale. Anche se poi, la maggior parte di chi ascolta musica, lo fa distrattamente e si accontenta veramente di poco. Ma io rispetto e voglio continuare a rispettare chi segue e ama la mia musica».

Il disco vede anche la collaborazione di altri artisti, quali Enrico Ruggeri, Pacifico, Büne Huber, Fabrizio Bosso e Awa Ly. Cosa hai chiesto a loro di “aggiungere”?
«Con Ruggeri c’è una frequentazione artistica più che trentennale. È strano ma, nonostante la nostra diversità, ci sono tra noi dei punti di contatto che generano canzoni particolari. Le canzoni che scrivo con Enrico sono diverse da tutte le altre. È come se lui leggesse in qualche angolo nascosto della mia anima, una specie di hacker che si intrufola nel mio mondo decifrando le mie password.
Pacifico lo conoscevo come autore e in una occasione abbiamo condiviso un concerto, anni fa. È bravo, moderno e sensibile. Avevo una musica sulla quale giravo e rigiravo in cerca di una ambientazione. Immaginavo un mondo notturno e gioioso, un po’ festaiolo, tra il mariachi e Mink de Ville. Lui ha centrato in pieno l’obiettivo.
Büne Huber è il leader dei Patent Ochsner, una rock band bernese che da più di venti anni è ai vertici delle classifiche. Ci siamo incontrati artisticamente quindici anni fa e abbiamo fatto molte cose insieme. Sapevo già come Büne avrebbe interpretato la musica di “Annaluna”, scrivendo un testo profondamente poetico e romantico. Lui l’ha scritto in svizzero tedesco, e mi ha mandato una traduzione in inglese, io l’ho adattato in italiano.
Ad Awa Ly ho chiesto di essere se stessa, interpretando una parte di testo che prevedeva cinismo e accondiscendenza nello stesso tempo. Lei ha saputo aggiungere molto altro, davvero brava.
Infine Fabrizio Bosso: non gli ho chiesto niente, non ne avevo bisogno. Lui ha sentito la canzone e ha suonato senza interruzione due volte: una  volta con la sordina e una volta senza. Ho dovuto solo fare il sacrificio di mettere da parte una versione».

Per la realizzazione dell’album hai collaborato con tuo figlio, come è stata l’esperienza?
«I miei figli, Guido e Matteo, sono cresciuti in mezzo agli strumenti, alle prove, ai concerti e in molti casi hanno condiviso l’amicizia con i miei musicisti. In moltissimi concerti li ho avuti tutti e due sul palco con me. Conoscono il mio mondo e io conosco loro. Guido, pur non frequentando più attivamente il mondo musicale scrive delle bellissime canzoni e io ogni tanto ne incido qualcuna (in questo album “Ogni volta che piove”). Con Matteo mi tocca lavorare in modo più professionale, è molto severo e selettivo».

L’anno scorso hai pubblicato il libro autobiografico “Come una macchina volante”, in cui raccontavi la tua infanzia e giovinezza, e dove si percepisce bene la tua anima divisa tra la professione di medico e quella di musicista. Quanto queste due essenze hanno convissuto e convivono nella tua vita?
«Le due anime sono agli antipodi, ma si incontrano: da una parte la conoscenza e la pratica scientifica, dall’altra la fantasia, l’immaginazione, la poesia. Ma anche la medicina è un’arte, un’arte umana che prevede e pretende sensibilità e sentimento, a meno che non si voglia interpretare la professione medica  esclusivamente in chiave di affermazione sociale e economica».

Oltre ai concerti per presentare il disco, quali altri progetti hai in mente?
«Uno solo: il mio successo è iniziato nel 1982 con l’album “Intorno a trentanni” e ora vorrei chiudere il cerchio. Sto lavorando a “Intorno a trentanni revisited”. Una rivisitazione totale delle otto canzoni di quell’album, con in più alcune versioni live tratte dai nastrini registrati nei concerti di quegli anni».

(Mimmo Locasciulli, ritratti di Mariangela Ottaviano)

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