«L’ultimo luogo libero d’America è un parcheggio»: c’è un paese nel Paese perennemente in viaggio che da più di dieci anni si misura con una ritrovata libertà. Prima del Leone d’Oro a Venezia e prima dei premi Oscar come miglior film, miglior regista Chloé Zhao e miglior attrice protagonista Frances McDormand, Nomadland è stata la storia di un libro travolgente, scritto dalla giornalista statunitense Jessica Bruder.
Edito in Italia da Edizioni Clichy, Nomadland – Un racconto d’inchiesta, risultato tre anni in viaggio e oltre quindicimila miglia percorse, è la cronaca di un ricorso storico: una congiuntura economica e una comunità di americani senza fissa dimora, in movimento da uno Stato all’altro a caccia di lavori saltuari, senza affitto da pagare e con un pieno da fare. Un racconto di un’America da déjà-vu che ha fatto innamorare Frances McDormand e che Chloé Zhao ha adattato a sceneggiatura.
The Big Short di Adam McKay, che sei anni fa ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura non originale, è un illuminante riassunto dell’episodio precedente: le obbligazioni sui mutui subprime come fondamenta dell’economia statunitense – perché dài, vuoi che gli americani non paghino del rate del mutuo? Lo scatto del tasso di interesse variabile da un lato, dall’altro tranche ad alto rischio smaltite e infilate in altre obbligazioni – dog shit wrapped in cat shit, spiegava con il dono della nitidezza il film – e infine il collasso del sistema che lasciò sei milioni di americani, letteralmente, per strada.
Nella nuova vita su ruote il glossario è ampio: vandweller, workamper, camper force se sei inquadrato come forza-lavoro da un gigante come Amazon. I nuovi nomadi hanno nomi diversi, sono quasi sempre avanti con l’età e sono tutti vittime dello scoppio della bolla immobiliare e del crollo economico del 2008. Ex professionisti, impiegati o lavoratori autonomi, esodati della borghesia e di una middle class sempre più assottigliata e sempre più vacillante. Rifiutano il termine senza-tetto, preferiscono senza-casa, perché loro un tetto ce l’hanno anche se è su quattro ruote. Il vantaggio è che sopra quel tetto può esserci qualsiasi cielo loro desiderino.
«Molte persone che ho incontrato sentivano di aver trascorso troppo tempo a perdere a un gioco truccato. E così hanno trovato il modo di fregare il sistema» scrive nel libro Jessica Bruder. «Hanno rinunciato alle tradizionali quattro mura, rompendo le catene di affitto e ipoteche. Si sono trasferite in furgoni, camper e roulotte, spostandosi da un posto all’altro alla ricerca del clima mite, e riempiendo i serbatoi coi lavori stagionali». I loro mezzi hanno nomi di vecchi rocker e band folk, possono essere ricercati calembour o semplicemente evocativi di una indipendenza che a sessanta, settant’anni pochi mettevano in conto. E sono i più disparati: van rivestiti di pannelli solari, veicoli malmessi e resi abitabili, vecchie Prius e in qualche caso persino artigianali riedizioni dei vardo, i carri in legno dei romaní britannici nell’Ottocento.
Colpiti forte dalla Grande Recessione, girano per l’America e si fermano quando trovano lavoro. E spesso basta poco. Assunti come camp host ad esempio, cioè un po’ guardiani, un po’ manutentori e molto addetti alle pulizie nei campeggi. Lavoro duro, ma meno degli arruolamenti dell’alta stagione prenatalizia nei magazzini Amazon: chilometri e chilometri al giorno tra la merce in capannoni grandi quanto piccole città, lo stretching di inizio turno che non evita l’abbondante uso di antidolorifici e antinfiammatori nelle ore successive. Basta poco anche perché l’America non si formalizza sull’età, e storicamente non l’ha mai fatto nell’idea che la mancata occupazione avvicinasse un po’ più alla morte: quello statunitense è uno dei sistemi pensionistici più recenti e anche vaghi, specie in tempo di crisi.
I vandweller stazionano di notte nei parcheggi poco distanti dal luogo in cui hanno trovato lavoro, con un mucchio di stratagemmi per passare inosservati, dall’indicazione delle catene di centri commerciali o attività che tollerano la loro presenza, ai segreti per dribblare polizia e disturbatori notturni. Quasi sempre quattordici giorni a sosta, poi sono costretti a spostarsi ad almeno quaranta chilometri. Quanti fanno questa vita? Mica facile dirlo: «Non c’è un conteggio esatto di quante persone vivano da nomadi in America», spiega Bruder. «I viaggiatori a tempo pieno sono un incubo per i demografi. Statisticamente si mescolano al resto della popolazione, perché per legge devono mantenere degli indirizzi permanenti, cioè fasulli. Il tuo stato di residenza è quello in cui fai registrare e revisionare i veicoli, rinnovi le patenti di guida, paghi le tasse, voti, fai parte di una giuria, ti iscrivi a un programma di assicurazione sanitaria e adempi a una litania di altri doveri. E vivere in nessun luogo, pare, significa vivere ovunque, almeno sulla carta».
Nomadland racconta con dovizia anche l’amarezza del primo passaggio obbligato. La caparra sul valore dell’auto-determinazione è l’inevitabile senso di sconfitta e di tradimento, l’inganno svelato nella favola raccontata a ogni americano: puoi fare il tuo onorevole percorso di studi, trovare una buona occupazione, lavorare duramente, e perdere comunque la mano. La vita on the road ha il sapore di ribellione alle regole del gioco e di rivalsa sulle manette dell’affitto e delle tasse: Solo la morte offre così tanto in un colpo solo, scriveva nel 1936 la réclame di un periodico sulla vita in roulotte. Erano i tempi della Grande Depressione e quel mezzo di trasporto stava entrando per la prima volta nella storia della produzione di massa.
Rispetto alla sterminata migrazione verso la California e i suoi aranceti degli okie, mezzadri dell’Oklahoma colpiti dalla crisi e dalle dust bowl, raccontata da John Steinbeck alla fine degli anni Trenta, la Grande Recessione è un déjà-vu con una sostanziale differenza, specifica Bruder. Se Furore di Steinbeck era pervaso dal sogno comune di tornare prima o poi alla vita precedente, tra gli intervistati di Nomadland è una fantasia che non sembra esistere. L’America sta diventando un grande giardino e non è il giardino privato di nessuno: la segregazione residenziale in base al reddito, il senso di inadeguatezza e la demarcazione topografica tra ricco e povero sono ricordi che non danno nostalgia. E nei momenti in cui l’eremitismo e la solitudine possono sembrare un peso, la comunità dei vandweller ha pronti rimedi come il Rubber Tramp RendezVous, un grande ritrovo periodico, ispirato a quelli dei montanari del diciannovesimo secolo alla fine della stagione delle pellicce. Si sta insieme, ci si scambia informazioni e risorse, si condivide tempo ed esperienza, ed è una tappa fissa per coloro che più che entità si sentono parte della vanily, la grande famiglia dei van.
Dice nel libro LaVonne Ellis, un tempo giornalista, vandweller a sessantasette anni: «Ho trovato la mia gente, un gruppo raffazzonato di disadattati che mi hanno circondato con amore e accettazione. Per disadattati non intendo perdenti e sbandati. Erano intelligenti, compassionevoli e laboriosi americani a cui è caduta la benda dagli occhi. Dopo una vita a rincorrere il Sogno Americano, sono arrivati alla conclusione che era un gigantesco imbroglio».
Ezio Azzollini
Da Esquire
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