A 37 anni Rossini aveva già smesso di comporre opere. Aveva iniziato da giovanissimo, per poi debuttare nel 1810 a Venezia con La cambiale di matrimonio. In poco meno dei successivi 20 anni il compositore pesarese divenne una vera e propria celebrità, in patria ma soprattutto all’estero.
A 150 anni dalla morte Rossini è ancora uno dei compositori d’opera più famosi e rappresentati a livello mondiale. Una universalità che trova la sua magia nella completezza sonora delle sue melodie, a cui difficilmente si può rimanere indifferenti. Per cui non ci è sembrato strano ritrovare il pianista e compositore Mario Mariani intento a “giocare” con alcune delle pagine di musica rossiniane.
Nato a Pesaro (come Rossini) Mariani è un artista eclettico e un compositore in grado di cimentarsi con la musica contemporanea, le performance teatrali, spaziando dalle colonne sonore per cinema e televisione a pezzi più classici e trascrizioni. Seguendo questo percorso Mariani ha sempre cercato di creare sonorità non convenzionali e rifacendosi a un approccio “materico” alla musica, dove il pianoforte diventa vero e proprio strumento creativo, orchestrale. Questo modo di porsi verso il proprio strumento l’ha portato a sviluppare le potenzialità del pianoforte preparato (interagendo con i più svariati oggetti – frullini, righe, biglie e altro – usati direttamente sulle corde per esprimerne le infinite potenzialità), arricchita di senso “teatrale” ed espressivo. Partendo da questa sua visione sonora Mariani ha approcciato alcune delle pagine più conosciute (ma anche altre meno note) del genio pesarese, raccogliendole nel disco The Rossini Variations (pubblicato da Intemporanea Records e distribuito da Artist First). Un approccio così particolare e personale che abbiamo chiesto direttamente a lui di spiegarcelo.
Come è nato il progetto delle “Rossini Variations”?
«Un insieme di eventi mi hanno portato, dopo il precedente album The Soundtrack Variations, ispirato al cinema, a concepire questo lavoro monografico dedicato al mio illustre concittadino. La sua musica è sempre stata presente nella mia vita, calpestando lo stesso suolo, studiando nell’omonimo Conservatorio, che Rossini ha fortemente voluto, donando alla città di Pesaro una larga parte del suo cospicuo patrimonio e, non ultimo, il restauro del mio amato pianoforte Steinway “O” del 1906, sul quale ho per l’appunto inciso l’album. Tornandomi dunque il piacere di suonare musica classica, dopo anni di improvvisazioni radicali, performance e sperimentazioni di ogni genere, Rossini è venuto prepotentemente alla mia personale ribalta».
Nella copertina del disco Rossini si trasforma in Mariani. Quanto Rossini è riuscito ad entrare in te e quanto pensi di aver trasformato Rossini.
«Sicuramente una certa immedesimazione c’è stata visto che nell’album è presente un brano dal titolo Rossiniana in cui mi sono lasciato guidare da tutto ciò che di “rossinesco” si era sedimentato in me in questi lunghi anni. Il lavoro di variazioni ha diverse declinazioni: dalle mie trascrizioni in cui arricchisco le sonorità pianistiche con tecniche estese come il mio amato frullino Ikea che trasforma il pianoforte in un mandolino nella celebre Tarantella, o il rullante che uso come risuonatore nell’Ouverture della Gazza Ladra, il bending sulle corde ad imitare il miagolio nel Duello buffo di due gatti (sic) a invece vere e proprie variazioni sistematiche come ne La petite solennelle variations o in Figaro’s dream».
La scelta dei brani del disco come è avvenuta.
«Ho scelto principalmente le musiche più conosciute come appunto le Ouvertures dalla Gazza Ladra, dall’Italiana in Algeri e dal Gugliemo Tell, la Tarantella napoletana, in modo che il pubblico potesse concentrarsi maggiormente su variazioni su ciò che conosce già molto bene, con a fianco brani più “musicologici” come la già citata Petite Messe Solennelle o il Mi lagnerò tacendo, sul cui testo di Metastasio Rossini compose decine di versioni musicali diverse: ho scelto quella per me più emblematica con la melodia di una sola nota, che mi permette di inserire variazioni e citazioni che vanno da Jobim a Ligeti, a Scelsi…».
Rossini, con Verdi e Puccini, è uno dei compositori più famosi e rappresentati in Italia e all’estero, come hai sentito l’approccio del pubblico alle tue variazioni su temi così famosi?
«Il pubblico gradisce sempre molto per la forza del repertorio in sé: scintillante, coinvolgente anche se così “antipianistico”, visto che è musica principalmente scritta per orchestra e renderla al pianoforte non è per niente cosa facile.
Oltre a questo il pubblico viene attratto anche dal mio modo di suonare che molti definiscono “teatrale”,“fisico” e “sciamanico”. Per me infatti il gesto è sempre un gesto musicale e una necessità espressiva. Mai qualcosa di fine a se stesso. E a fine concerto molti salgono sul palco incuriositi dagli oggetti e dalle strane sonorità che producono».
Ci puoi spiegare brevemente il tuo approccio con il pianoforte e l’idea di integrarlo con altri strumenti inusuali?
«Sono tanti anni che le tecniche estese fanno parte integrante del mio modo di suonare e mi riferisco particolarmente al lavoro che faccio sul corpo sonoro del pianoforte. Anche se per sua natura può ricordare in parte la prassi cageana non mi riconosco affatto nel termine “pianoforte preparato”, perché di preparato non c’è proprio nulla. Piuttosto lo chiamerei “pianoforte (im)preparato”, visto che ci sono oggetti disposti sul somiere dello strumento e pronti per essere utilizzati – forse si o forse no – all’interno di un largo contesto improvvisativo, che preferisco chiamare “composizione istantanea traspersonale”».
Compositore, interprete e performer. Ma a volte non capita che uno di questi tre aspetti prenda il sopravvento, o riesci sempre a controllarli tutti?
«Queste tre figure dovrebbero essere integrate in ogni musicista, e infatti così era fino a un paio di secoli fa, prima che avvenisse la specializzazione e divisione tra i “ruoli” che oggi conosciamo purtroppo così bene, iniziata nel XIX secolo e arrivata al suo culmine nel 1900 producendo compositori che non sanno suonare uno strumento, interpreti che non sanno comporre o improvvisare. O meglio che non credono di saperlo fare. Da diverso tempo tengo dei workshop di “Creative Music” rigorosamente “score free” in cui faccio esprimere la creatività soprattutto di musicisti classici che, una volta liberati dal giogo della partiture e da quella che io chiamo la “barriera fisica e mentale del leggio”, si sperimentano capaci di creare qualcosa che non credevano possibile. Leggo nei loro volti felicità e gratitudine ed è ogni volta un momento magico».
Come ti poni tu all’imperversare di compositori minimalisti, soprattutto pianisti. Come se il ruolo di interprete non bastasse più.
«Il minimalismo, quello “vero” di Philip Glass, di Steve Reich, di Terry Riley era qualcosa di nuovo e molto interessante, che portava l’ascoltatore quasi a uno stato di trance ipnotica e percezione alterata del tempo, del ritmo e anche dello spazio sonoro mentre quello di oggi specialmente al pianoforte piuttosto lo definirei un “minimismo” e come trovavo il minimalismo in linea con i tempi frenetici, iperattivi, “newyorkesi” degli anni ‘60/’70 trovo quest’ultimo in linea con una certa depressione e, consentimi il neologismo, proza(i)cisimo, tipici di quest’epoca…
Da un lato c’è sicuramente poca voglia e capacità nel percorrere strade nuove, dall’altro una paura della complessità che porta a questa “via brevis”, visto che con lo strumento pianoforte è possibile con un arpeggio e una melodia consonante dare l’illusione di “stare facendo musica” e lo testimoniano i video virali negli aeroporti e per la strada con improbabili pianisti che vengono fatti passare per geni, condendo il tutto spesso con titoli sensazionalistici per attirare click.
C’è il complesso e il complicato, c’è il semplice e il sempliciotto.
E a mio avviso il “less is more” è per chi se lo può permettere…».
I prossimi progetti coinvolgeranno altri compositori classici?
«Penso di sì anche se sicuramente non in maniera così monografica. La musica classica e la grande musica degli anni ‘70 sono il mio background originario e non lo dimentico mai, pur cercando di rimanere aggiornato su ciò che succede oggi.
Sono sempre stato un sostenitore della Storia della Musica al contrario: partire dalla musica di oggi e andare indietro, trovando le sottili trame entro cui l’evoluzione si sviluppa.
Dopo due album di variazioni su temi altrui ora sento di tornare alla musica che fluisce direttamente in me. Non uso il termine composizione perché mi sa di vetusto, di elucubrazioni e speculazioni che nel mio modo di intendere la musica tolgono energia alla scintilla creativa, alla necessità espressiva, e per citare San Giovanni, al “vento che soffia dove vuole”».
In copertina: Mario Mariani, Teatro Cagli, foto Gloria Mancini
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