Il fascino trasgressivo e patinato degli anni Ottanta rivive nell’antologica bolognese curata da Luca Beatrice: 150 opere di Warhol e seguaci, dai prodromi degli anni Sessanta, all’omaggio del 1990 Songs for Drella. Sogni, aspirazioni, edonismo e cinismo, di un periodo che cambiò il mondo dell’arte e non solo. A Palazzo Albergati, fino al 24 febbraio 2019. www.palazzoalbergati.com
BOLOGNA. Gli anni Ottanta cominciarono a nascere nel 1964 quando un giovane artista di Pittsburgh ebbe l’idea di far passare per opere d’arte quegli oggetti e quei beni d’uso quotidiano che identificavano la nascente società del consumismo di massa: una confezione di detersivo Brillo, o un barattolo di minestra in scatola marca Campbell, divennero soggetti per moderne nature morte, che in parte ricordavano i readymade di Duchamp. Ma il tizio in questione si chiamava Andy Warhol, aveva origini polacche ed ebbe anche l’accortezza, accompagnata da una profonda disillusione, di trasportare nel mondo dell’arte uno stile di vita, amplificarlo e rispedirlo al mittente creando nel pubblico l’illusione di appartenere allo star system. La Pop Art fu, almeno nelle intenzioni, un fenomeno di massa, che sganciò gli anni Sessanta dall’attivismo e dall’utopia, o meglio, fornì all’americano medio (ma non soltanto a lui), un pretesto per lasciare da parte questioni troppo impegnative e dedicarsi, nel clima di entusiasmo seguito alla fine della guerra, alla ricerca del successo, del benessere, del piacere. La mostra Warhol&Friends, New York negli anni ’80, racconta in maniera esauriente, grazie a un allestimento accattivante, l’atmosfera esaltante e controversa di una città che fu specchio di un’epoca.
Dalle sale patinate della sua Factory, Warhol fa dell’arte un fenomeno di mercato, basato sulla riproducibilità dell’opera d’arte (le serigrafie sono infatti il suo “cavallo di battaglia”), e una questione di apparenza, prima ancora che di sostanza; il suo personaggio è persino più importante delle opere, e lo dimostra l’ossessione che ha per le fotografie istant
anee Polaroid, quasi a voler documentare e tramandare ai posteri ogni istante della sua esistenza. Warhol crea la società dell’immagine, i suoi ritratti di personaggi famosi – da Mick Jagger a Liz Taylor, da Jackie Kennedy a Marilyn Monroe, passando anche per Lenin e Mao Tse Tung – costituiscono il gotha cui tutti vorrebbero appartenere, e la nascente scena newyorkese fornisce a tutti questa illusione. Per un quarto di secolo Warhol è il monarca assoluto di una scena mondana e artistica che ha appunto in New York il suo centro di gravità: un po’ com’era accaduto negli anni Sessanta, l’arte si contamina con la moda e la musica, cui si aggiungono, questa volta, anche il mondo della pubblicità e della finanza, sulla scia dell’edonismo reganiano. È infatti l’amministrazione Reagan a sancire il vero cambiamento sociale negli USA: la parola d’ordine è deregulation, si abbassano le tasse e si allentano i vincoli della sorveglianza bancaria e borsistica. Si crea un entusiasmo assai differente da quello utopico di venti anni prima, tutto sembra facile e a portata di mano, le discoteche di New York sono affollate di star e gente comune, c’è voglia di dimenticare la sconfitta militare subita in Vietnam e di ricostruire il morale del Paese. La nuova scena culturale vi contribuisce in maniera sostanziale, e da questo punto di vista la Pop Art deve essere considerata non soltanto come un fenomeno artistico, ma anche e soprattutto sociale. La mostra di Palazzo Albergati racconta quel decennio scintillante a partire dalle sue radici, ovvero le intuizioni di Warhol a metà degli anni Sessanta, da cui sono derivate numerose declinazioni artistiche. Warhol fu un simbolo, che ispirò decine di colleghi, e ancora oggi il sistema dell’arte come mercato, l’apparenza prima della sostanza, sono dinamiche saldamente presenti nella società.
Ma a differenza di oggi, negli anni Ottanta si credeva ancora in qualcosa: New York affrontava problematiche sociali assai gravi, dal razzismo alla corruzione, fino alla fobia omosessuale. In particolare la street art, nata sul finire degli anni Settanta con Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Kenny Scharf, alza il velo su queste piaghe, fa della città una sorta di galleria d’arte a cielo aperto con opere all’apparenza disimpegnate, in realtà cariche di rabbia e trasgressività. La scienza underground diviene di gran moda in quartieri un tempo off come il Bronx o il Lower East Side. La novità del nuovo sistema dell’arte, è che tutto quanto viene trasformato in fenomeno di costume, commerciale, accessibile al grande pubblico, diventa in poche parole un bene di consumo. I galleristi divengono le eminenze grigie del sistema, e si impegnano a fondo nel promuovere la Transavanguardia Internazionale, il movimento di ritorno alla pittura (dopo vent’anni di Arte Povera, Informale e Arte Concettuale), che accanto a Julian Schnabel, Julio Galan, Alex Katz, vede protagonisti anche artisti italiani, su tutti Sandro Chia e Francesco Clemente.
L’arte diviene sempre più un settore d’investimento, e tanto più l’artista è famoso, tanto più l’opera ha valore. Da qui, la necessità di far parlare di sé, di vendersi come un qualsiasi bene di consumo, un po’ come una prostituta nei vicoletti dell’East Side. Basquiat, che da adolescente praticava occasionali marchette da quelle parti, fu l’unico a sentire la falsità del sistema, l’unico a produrre dell’arte autentica. Fuori, regnava l’apparenza, l’esagerazione cromatica della Transavanguardia o dei Nuovi Selvaggi tedeschi, la civettuola drammaticità dei Neo-Espressionisti, e soprattutto, il carnevale dello Studio 54 (con il Regine la discoteca più famosa dell’epoca), dove i party si susseguono ininterrottamente. Un carnevale, scriveva Tom Wolfe, alimentato dal denaro. Se da un lato gli anni Ottanta furono il decennio della fatuità, dall’altro videro la nascita di un importante fenomeno artistico e sociale: l’affermazione di numerose artiste, quali Jenny Holzer, Cindy Sherman, Nan Goldin, Sherrie Levine. Con coerenza intellettuale, credendo veramente nel loro ruolo, svilupparono un’arte vicina alle problematiche di genere, rompendone gli stereotipi, e soprattutto mostrando il lato oscuro di quel decennio: denaro e celebrità non erano ovviamente alla portata di tutti, così come l’ingresso allo Studio 54: l’individuo della strada doveva accontentarsi di una versione in sedicesimo, che spesso aveva le sembianze di squallidi appartamentini del Bronx o dell’East Side. È qui che Nan Goldin ha documentato, con le sue struggenti fotografie, l’agonia di una generazione, fra alcool e AIDS.
Su tutti però, c’era sempre Andy Warhol, che negli anni Ottanta incentra la sua carriera in particolare sui ritratti di personaggi famosi (ma non necessariamente, bastava fossero abbastanza facoltose per pagare la tariffa richiesta), alimentando a dismisura il mito dello star system. Scomparve nel febbraio del 1987, a causa di complicazioni seguite a un intervento alla cistifellea. Per coincidenza, in ottobre un pesantissimo crollo a Wall Street mise fine alla prima fase della New Economy e l’entusiasmo americano ne uscì fortemente scosso. Il grande sogno era finito, e tre anni dopo Lou Reed e John Cale (che devono a Warhol l’ideazione della copertina del loro primo album del 1967), gli resero omaggio con il concept album Songs for Drella, e fu la vera elegia funebre a un intero decennio. Con lo pseudonimo Drella, nato dalla fusione di Dracula e Cinderella, Warhol voleva significare la sua doppia personalità oscura e fiabesca; e oscuri e fiabeschi insieme furono gli anni Ottanta in Europa Occidentale e in America: un esperimento sociale su larga scala, fallito perché troppo dispendioso da un punto di vista economico, ma anche da un punto di vista delle risorse fisiche: l’altissimo numero di morti premature per AIDS e altre malattie, falcidiò la comunità artistica americana e in parte anche europea, così come squilibrò in profondità anche la popolazione normale.
La mostra di Palazzo Albergati costituisce un’approfondita ed elegante panoramica sull’atmosfera degli anni Ottanta: permette di capirne i numerosi volti, anche fra loro contraddittori, e fra le righe spiega quanto profonda sia stata l’influenza di Warhol, nel bene e nel male, sull’arte e la società contemporanea. Di figli bastardi ne ha seminati parecchi, compresa l’ossessione per l’autocelebrazione, che oggi impera nei social network.
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