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16 Nov

Arte e vita appassionate di Carlo Carrà

Una grande antologica in 130 opere racconta uno dei protagonisti più attivi dell’arte italiana del Novecento, che esplorò molteplici linguaggi pittorici, dal Divisionismo al Futurismo, toccando la Metafisica. A cura di Maria Cristina Bandera. A Palazzo Reale, fino al 3 febbraio 2019.

Carlo Carrà, Composizione, 1915 Mosca, State Pushkin Museum of Fine Arts

MILANO. «La mia pittura non vuole essere né naturalista né solo mentale, pur affermando l’esistenza dei valori di realtà e di quegli altri che ci vengono dall’immaginazione». Con queste parole Carlo Carrà (1881-1966) spiegava l’essenza della sua arte, in poetico equilibrio fra natura e Avanguardia, e dedicandogli una monografia nel 1937, Roberto Longhi parlò di lui come del «primo poderoso riavvio della pittura italiana», che all’inizio del Novecento ancora languiva all’ombra di Fattori e dei Macchiaioli. Attratto dalla pittura sin da giovanissimo, vi giunse dopo aver lavorato alcuni anni come decoratore murale, alternando l’impiego agli studi presso la Scuola superiore d’Arte applicata all’Industria, e successivamente, dal 1906, all’Accademia di Brera. Questa esperienza professionale gli dette l’opportunità di essere a Parigi per l’Esposizione Universale del 1900, dove decorò il padiglione del Canada, e approfittò del soggiorno per conoscere da vicino i maestri della pittura Impressionista e i loro predecessori, a cominciare da Gustave Courbet, per il quale il giovane Carrà provava profonda ammirazione. Rientrato dalla Francia fortificato nei suoi propositi artistici, seguì con attenzione gli sviluppi del clima artistico milanese, e una delle sue prime prove fu l’Allegoria del Lavoro (1904) eseguita per la Cooperativa Pittori e Imbiancatori di Milano. Nel clima di scontri sociali dovuti alle rivendicazioni operaie, anche l’arte si era schierata “a sinistra”, in particolare i Divisionisti, che appunto ispirarono Carrà per questo dipinto di grandi dimensioni; un dipinto che però va oltre, caratterizzato da un dinamismo affatto nuovo e una composizione monumentale scevra di retorica che giustifica il giudizio di Longhi di tre decenni più tardi. Un talento confermato nell’altra grande opera I funerali dell’anarchico Galli, del 1910, anch’essa esemplificativa di un periodo storico caratterizzato da forti tensioni sociali. Da un punto di vista estetico, si legge chiaramente la svolta di Carrà verso il Futurismo, del manifesto del quale era stato firmatario a Milano l’anno precedente, così come di quello, specifico, sulla pittura, in quello stesso 1910, assieme a Umberto Boccioni, Giacomo Balla e Gino Severini: Milano era all’epoca la città più dinamica e ricettiva d’Italia, anche da un punto di vista artistico. Il dipinto esprime insieme tensione drammatica e fiducia nell’avvenire sociale, le cui conquiste difficilmente potranno avere luogo senza violenze. Il socialismo romantico vagheggiato da Previati e Pellizza da Volpedo è ormai definitivamente tramontato.

Carlo Carrà, La carrozzella, 1916, Mart

Il percorso di Carrà nell’arte non si ferma con l’adesione al Futurismo (nell’ambito del quale espose nel 1912 a Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles), bensì, come documenta la mostra milanese, fu caleidoscopico e complesso, aperto all’indagine di altri linguaggi pittorici. Tornato a Parigi nel 1914, conobbe Picasso, Modigliani e Apollinaire, e quest’ultimo ebbe su di lui una particolare influenza: le pitture di Carrà, da questo momento, sono intrise di poesia, e se l’estetica è vicina al Cubismo, le atmosfere sono vicine alla levità dei testi di Apollinaire, appunto, ma anche delle tele di Chagall, a metà fra mondo reale e mondo dell’onirico. Mentre la Composizione (1915) lascia vedere l’omaggio a Modigliani e ai collage di Braque e Picasso – segnando uno degli ultimi esempi di frequentazione pittorica dell’Avanguardia -, La carrozzella (1916) ben esprime il nuovo corso, assieme a un profondo interesse per l’elementarità formale di stampo giottesco e primitivo, ponendosi fra i primissimi seguaci di Soffici che già predica il “ritorno all’ordine”. Di fatto, l’ultima tappa di Carrà futurista fu la campagna interventista nella primavera del 1915. Le sue personali vicende belliche determinarono una nuova svolta nella sua carriera pittorica: convalescente a Ferrara nel 1917 per i postumi dello “stress da combattimento”, conobbe De Chirico e s’interessò alla Metafisica, senza però perdere la sua vena poetica ed evitando la freddezza, per quanto affascinante, delle pitture del collega. Come scrisse, infatti, la pittura metafisica fu «la ricerca di un più giusto rapporto fra realtà e valori intellettuali». Frequentazione comunque fugace, perché già alla fine del decennio, Carrà si volge alla pittura dei cosiddetti “valori plastici”, attenta alla sintesi della forma e dell’equilibrio compositivo, con la natura assoluta protagonista, sospesa fra poesia e dato di realtà. Il mare, in particolare quello ligure e quello toscano, sono i protagonisti delle nuove tele, dove Carrà conserva la semplicità dei Primitivi ma regala atmosfere dense di memoria e tensione emotiva. Paesaggi senza tempo, densi della presenza umana pur nella sua assenza, e che ricordano le geometrie di Cézanne e Seurat.

Fra gli anni Trenta e Quaranta, il pittore torna alla figura umana, anche nelle prove dei grandi affreschi per il Palazzo di Giustizia di Milano, ma la sua cifra resta la natura; per questa ragione, si cimentò a lungo con il genere della natura morta, che riteneva essere la “prova del fuoco” di ogni pittore. Le sue sono sublimi, intrise di silenzio come quelle di Chardin e mostrano l’artista all’apice della sua maturità artistica.

Ma sempre, la pittura di Carrà è sospesa fra la realtà e l’immaginazione, accompagna l’osservatore senza opprimerlo o stordirlo, in grazia di colori “magri” e soffusi, sussurrati come le poesie di Ungaretti.

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