Una retrospettiva curata da Walter Moser, nelle sale dell’Albertina di Vienna, riscopre in 130 opere una delle più originali fotografe del Novecento americano. Fino al 27 gennaio 2019.
VIENNA. Graffiti urbani, adulti seduti sui gradini, bambini che giocano, costituiscono l’immaginario di Helen Levitt (1913-2009), una delle fotografe più interessanti della scena americana del Novecento. Esponente della cosiddetta “fotografia di strada”, dalla spiccata vena documentaria, Helen Levitt iniziò la sua carriera nel 1936, ritraendo gli abitanti dei quartieri del Bronx e di Harlem, a New York, e i numerosi graffiti a carboncino che ricoprivano i muri degli edifici di quelle zone. L’ispirazione, o meglio l’incoraggiamento ad assecondare questa sua passione, le venne da un incontro del 1936 con Henri Cartier-Bresson, all’epoca non ancora coinvolto nell’avventura della Magnum, ma comunque già affermato professionista. Dal maestro francese la giovane americana assorbì anche la concezione della fotografia come mezzo puramente artistico, tramite il quale la realtà si combina con l’estetica. Pur seguendo un approccio a prima vista documentaristico, Levitt non ha però finalità sociali o di denuncia di particolari problematiche, bensì segue un punto di vista esclusivamente creativo, non scevro di umorismo e attento a cogliere i dettagli più insoliti in scene di giochi infantili o dialoghi fra adulti, inganni ottici che cambiassero la prospettiva della scena, posizioni che creassero l’illusione di un’alterazione di corpi e forme.
Una fotografia all’apparenza di facile lettura, in realtà dalla complessa chiave interpretativa. Dietro opere del genere, si cela infatti un approccio narrativo assai particolare: l’obiettivo di Levitt osserva e cattura la personale maniera con cui ognuno si “appropria” dello spazio pubblico, vi proietta la propria ombra e vi fa sentire la propria voce. In conseguenza di ciò, queste fotografie comunicano l’esperienza vissuta della strada, piuttosto che la vita urbana con le sue problematiche. Tuttavia, fedele al suo animo socialista, prediligeva soggetti e quartieri delle classi popolari e, pur senza intenti politici, la sua opera è comunque, in parte, anche una narrazione della working class della metà del Novecento. Un approccio in equilibrio fra poesia e realismo, dettato anche dal nuovo corso della “democratizzazione” dell’arte, e prendeva le distanze dalla rigidità ideologica della cosiddetta “arte di sinistra”. Per questa ragione l’opera di Levitt tradisce, a tratti, una certa influenza del Surrealismo, che emerge in quegli scatti dove immortala una gestualità spiazzante, o individui che indossano maschere, quasi da teatro di Boris Vian. Ancora una volta la lezione di Cartier-Bresson è determinante per il lavoro della Levitt, che si ispira direttamente al metodo del maestro di “catturare” intuitivamente qualsiasi scena curiosa in cui s’imbatteva per strada e tradurla su pellicola in una composizione avvincente, cercando insolite prospettive. Con la fotografia, il Surrealismo si trasferisce nella dimensione urbana, uscendo da quella museale. In particolare, l’attenzione di Levitt per i graffiti cittadini destò la curiosità e l’interesse del pubblico, che vi ritrovava, in parte, le suggestioni di Fernand Léger.
Il risultato di quei lunghi anni di lavoro sulla strada videro la luce in volume nel 1965, sotto il titolo di A way of seeing; concepito sul finire degli anni Quaranta, costituisce la più raffinata testimonianza di Levitt sul bianco e nero. Il volume raccoglie gli scatti dedicati ai bambini e ai loro giochi, ed è ammantato di una particolare luce poetica.
Gli anni Sessanta segnano la definitiva “conversione” di Levitt alla fotografia a colori, e fra le righe la sua opera lascia intuire in maniera più marcata rispetto al passato una certa presa di posizione rispetto alla situazione sociale e politica. La città è più che mai il luogo dell’alienazione, in seguito alla nascita della società dei consumi e al definitivo sostituirsi della società industriale a quella rurale. Levitt non ha mai rivelato un particolare idealismo, ma nonostante la vena surrealista dei suoi lavori degli anni Trenta, ha sempre dimostrato senso pratico nel guardare la realtà. E non appena le speranze di una reale democratizzazione e della giustizia sociale si sono infrante nel secondo dopoguerra, ha optato per una fotografia che fosse sì artistica, ma esprimesse tutta l’amarezza per il fallimento di quello che avrebbe dovuto essere il definitivo processo di pace e progresso civile per la nostra società.
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