Da Instagram in libreria, passando per un’abbondante colazione. È il suo #bookbreakfast, l’hastag nato nel gennaio 2014 quando per la prima volta postò sui social la fotografia di un libro (allora era il “Daily Dishonesty” della graphic designer Lauren Hom) con una tazza da caffè intonata alla copertina. Una casualità, racconta Stefania Soma. Grazie a questi quotidiani consigli (grafici) di lettura, oggi famosa a tutti come Petunia Ollister.
Chi è Stefania Soma e come è nata Petunia Ollister?
Stefania Soma ha fatto per quindici anni la conservatrice dei beni culturali, occupandosi prima di fotografie e poi di libri. Dopo aver resistito fino al 2010 prima di iscriversi a qualsiasi social network, quando si è convinta, non ha voluto farlo con il suo nome. Petunia Ollister nasce dalla collaborazione tra due amici particolarmente creativi e che involontariamente si è sovrapposto al suo nome anagrafico, fino a confonderli anche nella sua mente. Ha fatto la volontaria in alcune campagne politiche smanettando sui social, mentre smetteva di prendersi cura dei libri anziani e si dedicava al lancio di quelli neonati, collaborando con alcuni autori e gruppi editoriali.
Quali sono le cose più straordinarie che sono successe a Petunia e che non potevi immaginare? E quali obiettivi hai incontrato e raggiunto nel mentre?
Tutto quel che è successo è stato casuale, frutto di uno scouting sui social. Sia la collaborazione con “Ovunque6” di Radio2 che quella per “Robinson” di Repubblica sono state il risultato di una notifica arrivata nella messaggistica privata di Facebook e Twitter. Non mi sento una fonte autorevole, ho solo lanciato un progetto pop di promozione della lettura, ho dissacrato il libro inserendolo in un contesto quotidiano e rassicurante, applicandomi con costanza e senza mai abbassare il livello estetico e tanto meno quello della qualità dei libri che racconto. La cosa più straordinaria che mi succede costantemente è di incontrare le persone e parlarci. Da chi i libri li scrive a tutti i gradi della filiera editoriale, partendo dagli agenti, passando dalle redazioni, ai librai, fino ai veri protagonisti: i lettori. Per me è un piacere parlare con tutti perché mi piace ascoltare. Sono una collezionista di aneddoti.
Instagram e i social, tra caso e programmazione. Quando ti sei accorta che il reiterarsi di quella colazione postata sui social stava diventando “un lavoro” e cosa hai sfruttato nelle tue competenze professionali per consolidare quel dato di fatto?
Questo per me non è ancora un lavoro. Capita che ci siano collaborazioni come fotografa o consulente per i lanci sui social, ma sono una parte minima. E prima di accettare faccio attente riflessioni domandandomi se ne parlerei comunque. Nel caso la risposta sia “sì”, può essere che io accetti. In realtà quel che ho sfruttato è la mia capacità di sintesi del tradurre in immagine la parola scritta creando contenuti appositi per i social, che hanno un linguaggio e problematiche specifiche diverse dalla parola scritta tout court, che esca sulla carta stampata o sul web. Il messaggio è semplicissimo con un effetto immediato: ogni volta che qualcuno visita il mio profilo Instagram è come se entrasse in libreria. E poi, magari, lo fa veramente.
Un personal branding che definisci spesso involontario. Quali sono stati invece – successivamente – i brand che ti hanno contattata e convinta a collaborare? in altri termini, come alcune aziende contribuiscono ad apparecchiare le tue colazioni?
Sono pochissimi i casi e, come dicevo sopra, sono molto selettiva. Il metro di giudizio è il mio entusiasmo e il senso della sfida di comunicare qualcosa di non scontato. La maggior parte degli oggetti che vedete ritratti nelle foto sono miei. Come disse un’amica, la mia sembra la casa di un trovarobe. Quel che mi piace di più è raccontare per immagini e dare visibilità a progetti di nicchia, ma che mi piacciono tantissimo: uno su tutti, Hoppipolla Box (https://hoppipolla.it/).
Disposizioni simmetriche, accostamenti cromatici, nessi contenutistici… quali sono le tue migliori colazioni, dal punto di vista compositivo estetico e vuoi invece come gioco logico particolarmente raffinato?
Non c’è una logica raffinata nel mettere un maiale di plastica nella foto di un graphic novel sul G8 di Genova, il giorno della sentenza sui fatti della Diaz, ma un modo per mandare in giro un disagio che mi porto dentro da tre lustri. Non rinuncio mai alla citazione: ho messo una scatola di concime “Real Shit” in una colazione su Piero Manzoni, disegnato in copertina con la sua famosa “merda d’artista” o la mia pochette dei trucchi in un saggio sugli scritti di David Bowie. Un casco da minatore per GB84 di David Peace, il maglione di lana anni ’60 da marinaio bretone appartenuto al mio papà insieme a un libro sulla hygge. A volte semplicemente lavoro sui colori delle copertine, usando palette simili e oggetti realizzati appositamente come le teste imbottite di Pollaz – un’artista del cucito – a corredo della sceneggiatura originale di “The Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.
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