Quando ti appresti a scrivere di un grande artista ti senti inadeguato. Non vorresti mai che quello che trasmetti possa essere banale, ovvio, già sentito. Di certo con Fabrizio De André questo disagio lo si sente di più. Ho guardato nella mia biblioteca i libri che posseggo su di lui, e mi sono spaventato per il loro numero. Di certo penso che saranno solo il 10% di quelli pubblicati; percentuale che si abbasserà sicuramente in questo anno che inizia.
Perché parlare di De André ancora oggi? A vent’anni dalla sua morte, quell’11 gennaio del 1999 che avremmo voluto non arrivasse mai. Il cantautore di Genova, senza cadere nella retorica, è andato oltre a quel presunto effimero che avvolge la popular music. Per lui si sono spesi termini come “poeta”: stesso appellativo che ha contraddistinto la produzione di due artisti d’oltreoceano come Leonard Cohen e Bob Dylan. “Poeta” lo definiva Fernanda Pivano, una che di letteratura se ne intendeva. Così a vent’anni dalla morte De André non ha intaccato la sua forza dirompente, legata alla sua musica e, prima di tutto, ai suoi testi. Perché è proprio nelle parole che ha utilizzato, che sta la potenza del messaggio di Faber. Con questo non si vuole togliere nulla alla musica che ha accompagnato i testi. Ma è risaputo che lui stesso delegava gran parte della “veste” sonora a grandissimi musicisti e compositori (pur vigilando con attenzione alla realizzazione finale). Per far questo si è rivolto a nomi quali Nicola Piovani, Gian Piero Reverberi, Massimo Bubola, Ivano Fossati, Mauro Pagani. Ma, come si diceva, quello che ha caratterizzato di più la produzione di De André è stata la ricerca linguistica. Molti anni fa Massimo Bubola (autore con Faber di molti brani) mi ha raccontato che passavano intere settimane per trovare la parola giusta da inserire in un verso. Anche Mauro Pagani descrive bene questa attitudine alla ricerca: «Fabrizio passava il suo tempo a leggere, osservare, ascoltare. Guardava, borbottava, prendeva appunti su sgualciti quaderni di scuola, pieni di righe fitte, costellati di cancellature e correzioni. Stava seduto immobile in mezzo alle cose e lasciava che le parole dei suoi mille libri, ciò che gli raccontava la gente o più semplicemente l’infinita logorrea della televisione lo attraversassero e accendessero qua e là scintille e lumini». E ancora Pagani ci racconta che: «Ho avuto la grande fortuna di scrivere con lui due dischi [“Crêuza de mä” e “Le Nuvole”], peraltro molto diversi tra di loro, e in entrambi i casi mi sono reso conto che la cosa più importante per lui, la prima in assoluto, era la scelta di “cosa” raccontare. Non lo stile musicale, gli arrangiamenti o quant’altro, ma “dove andiamo, di chi parliamo”. La seconda domanda era naturalmente “Come”».
Un’altra sua grandezza, riconosciuta da tutti, è stata quella di dar voce agli ultimi, proseguendo la missione della tradizione anarchica e di poeti come François Villon e Edgar Lee Masters, di cui ha portato in musica i personaggi dell’Antologia di Spoon River. E proprio per quel progetto (che divenne poi l’album Non al denaro, non all’amore né al cielo), De André incontrò Fernanda Pivano, che aveva contribuito con le sue traduzioni a far conoscere in Italia molti scrittori statunitensi. La Pivano ricorda: «È stato così che un giorno Fabrizio è arrivato nella mia casa ancora zeppa di libri […] e con quella voce incredibile mi ha detto che voleva fare un disco su Spoon River, […] mi ha parlato, parlato, parlato, e Spoon River è diventata improvvisamente reale. I personaggi erano lì nella stanza con noi, e uno per uno si dicevano la loro disperazione, la loro delusione, la loro drammatica scoperta della realtà della vita». Mi accorgo che più scrivo e più dovrei scrivere; ma nel contempo non riuscirei a dar conto di quanto sia stato importante il lavoro di De André nella letteratura del Novecento, e del suo impatto sociale. Lascio a Don Andrea Gallo, suo concittadino e accanto a lui in innumerevoli battaglie, l’ultima parola. «Anch’io ogni giorno, come prete, “verso il vino e spezzo il pane per chi diceva ho sete e ho fame”. Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione[…]. La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza. Abbiamo riscoperto tutta la tua “antologia dell’amore”, una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà. E soprattutto, ricordandoti, le tue canzoni ci stimolano ad andare avanti».
(In copertina, foto di Carlo Silvestro Marka)
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