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19 Gen

Carrieri in musica dal contrappunto al jazz. Clair!

Un negozio di strumenti musicali. Una piccola saletta in cui un’amica e collega presentava insieme all’autore un disco. L’intensa voglia di trasmettere la passione per la musica. Questi sono stati gli ingredienti che hanno contribuito a farmi conoscere Massimo Carrieri.

Nato a Martina Franca, organista (per studio), pianista e compositore; ha pubblicato due album (e un terzo è in arrivo). Carrieri non è certo un personaggio molto conosciuto al grande pubblico, ma è di certo un professionista che ha saputo valorizzare a pieno gli insegnamenti musicali avuti in Conservatorio. Poi insieme alla sua vocazione alla curiosità, le esperienze all’estero e quelle lavorative in Italia, ha saputo costruirsi un percorso narrativo sonoro particolare. Abbiamo voluto incontrarlo, dopo aver saputo della diffusione in rete di un suo brano.

Hai appena pubblicato un nuovo brano, “Le Clair”, solo in rete. Spiegaci la sua genesi?

«Le Clair è una composizione che nasce da una melodia scaturita di getto seduto al pianoforte a fare altro, come spesso avviene. Mi trovavo nella mia casa di campagna in Puglia, era un pomeriggio d’inverno di qualche anno fa, ambientazione ideale per lasciarsi andare. Da lì la prima cellula che contraddistingue il brano, mi piace e continuo a lavorarci su finché lo vedo prendere  forma, nota dopo nota, istintivamente, senza pensarci troppo. Ho lasciato che scorresse da solo, con semplicità e naturalezza».

Come mai la scelta di usare la rete per diffondere questo brano e non aspettare di inserirlo in un nuovo disco?

«All’inizio non aveva una destinazione ben precisa, dopo averlo registrato ho pensato che sarebbe stato bello condividere quel momento con un pubblico, ma in una forma diversa rispetto alle procedure solite. Ascoltandolo mi portava inevitabilmente ad associarlo a delle immagini, ho pensato quindi che sarebbe stato bello legarlo a un video, un’operazione che non avevo mai affrontato prima. Da qui la scelta di diffonderlo in rete in piena autonomia, un “modus operandi” ormai tipico dei nostri tempi, grazie ai vari canali digitali oggi a disposizione. Al nuovo disco avevo già iniziato a pensarci ma avevo in mente una direzione un po’ diversa da quella di Le Clair, non lo vedevo contestualizzato, partendo dal fatto che il nuovo progetto sarà in trio… Aggiungo anche che dal concepimento alla pubblicazione sono trascorsi  tre anni, un tempo abbastanza lungo per maturare nuove idee. Diciamo, Le Clair era il pezzo giusto per tentare una strada mai percorsa prima, con entusiasmo e curiosità».

Nativo di Martina Franca, ma milanese d’adozione. Come è avvenuta la scelta di studiare pianoforte e perché a Milano?

«Ho iniziato a sei anni, senza particolari “visioni” da parte di nessuno, ero un bambino come tanti altri. Mio padre suonava la fisarmonica per diletto, mai preso lezioni, suonava “a orecchio”, come diceva lui. Non so, probabilmente avrà intravisto qualcosa che lo convinse ad accompagnarmi da un insegnante di pianoforte, non voleva assolutamente che lo imitassi in quell’approccio poco “ortodosso”. La scelta vera e propria penso sia avvenuta più in là, quando a distanza di qualche anno ho capito che la musica probabilmente sarebbe potuta diventare la mia “strada”. Dopo vari insegnanti privati entrai al Conservatorio di Monopoli, frequentavo la classe di organo e composizione. Alla maturità si aprì il solito dilemma: “e adesso che faccio”? Avevo 19 anni, a quell’età si ha voglia di girare il mondo, di fare nuove esperienze e di iniziare il proprio cammino. Questa volta però avevo una “visione” e decisi di andare nel posto più lontano da casa dove magari inseguirla e farla diventare realtà. Non mi sono mai piaciute le mezze misure e quindi Milano. Feci domanda di trasferimento all’allora direttore del conservatorio, Marcello Abbado. Venne accolta».

Pur avendo una formazione classica hai deciso di intraprendere delle strade diverse dalla carriera di concertista. Quali sono state le tue scelte e cosa le ha influenzate?

«Sono una persona curiosa, il ché mi porta spesso ad essere attratto da più cose. Le mie scelte penso si siano mosse un po’ con me, con ciò con cui di volta in volta venivo in contatto o che magari catturava il mio interesse. Si sono susseguite attraversando le varie età della vita, senza escludere le opportunità offerte e soprattutto le necessità del momento. Di sicuro dopo il diploma avevo capito che non avrei fatto l’organista, per quanto amavo (e amo) lo strumento, e per quanto gli riconosca gran parte dei meriti della mia formazione. Durante gli anni del conservatorio iniziavo già a muovermi esternamente, non avevo ben chiaro cosa volessi fare da grande ma non potevo ne volevo stare lì fermo ad aspettare. Mi sono ritrovato quindi a fare diverse esperienze e non nego, anche per necessità, ma che non rinnego, anzi, tutto è servito. Quindi suonavo il pianoforte, tastiere, scrivevo, arrangiavo, classico, moderno… situazioni di ogni tipo. Milano iniziava a darmi quello che cercavo, cioè fare di una passione anche il mio mestiere. Dopo diversi anni passati in questo modo qualcosa ha iniziato a muoversi dentro di me, influenzato anche da alcuni incontri e da esperienze che mi hanno dato gli input per iniziare a pensare seriamente a qualcosa di mio. Lo scatto vero e proprio avvenne dopo il Berklee College a Boston, al rientro in Italia capii che si era chiuso un ciclo, in tutti i sensi. Mi sentivo pronto per una nuova “visione”, almeno nelle intenzioni. Volevo iniziare a fare la mia musica e suonarla, avviare quindi la mia carriera da concertista».

È difficile riuscire a inquadrare in una categoria precisa la tua produzione. Tu hai spaziato dal teatro al pop, dal musical alla televisione, passando per la sperimentazione. Ma cosa deve essere un compositore e musicista oggi?

«È una domanda che io stesso continuo a pormi ogni giorno e alla quale cerco di darmi  una risposta. Appartengo a una generazione che ha visto il passaggio dall’era analogica a quella digitale, se così la vogliamo riassumere rapidamente. Siamo rimasti spiazzati, in un paio di decenni è cambiato tutto, e ci siamo necessariamente riadattati a questo nuovo mondo che probabilmente decodificheremo tra 20 anni. Non so di preciso cosa deve essere, penso solo che oggi più che mai bisogna avere uno sguardo ampio e veloce su quello che ci circonda, tutto scorre e si evolve molte rapidamente, bisogna avere attenzioni a linguaggi differenti ed essere pronti alle nuove forme di comunicazione. Oggi le arti si muovono tutte insieme tra loro, non sono più inscindibili».

Hai sempre affermato che sei molto attratto dalle musiche di altri paesi, le immagini, i viaggi…

«Si, è nella mia natura, mi nutro di tutto ciò. Non potrei raccontare nessuna storia se non provo a viverla in prima persona. Questo crea il mio bagaglio, da cui attingere quando devo affrontare una nuova partitura. Diverse mie composizioni raccontano di luoghi visitati o anche solo immaginati, vedi ad esempio Walking in Paris, Under Manhattan Sky, L’alba di Leuca, Terraross… così come spesso nella mia scrittura ci sono elementi presi in prestito da altri sistemi musicali o culture diverse dalla nostra, mi arricchiscono e creano un mix che rispecchiano la mia personalità».

Leggo da una tua presentazione che “nella mia musica confluiscono passato e presente, organizzazione e improvvisazione, spiccano la mia natura prettamente mediterranea e la ricerca di una precisa impronta timbrica”. Spiegaci meglio come riesci a intrecciare tutto questo.

«Il passato mi arriva dai miei studi classici, per anni Bach è stato il mio pane quotidiano. Il presente è dettato dalla curiosità, cerco di vivere la contemporaneità e di includerla nel mio linguaggio. L’organizzazione perché vedo la partitura come un’opera architettonica: fondamenta, design, funzionalità. Anche qui probabile retaggio di anni passati tra contrappunti e fughe. L’improvvisazione è arrivata diciamo da adulto, volevo esplorare le possibilità legate a questo modo di fare musica e inserirla tra le note scritte. La mia natura mediterranea è legata alla mia terra d’origine: la Puglia. È inevitabile, fa parte di me, viene fuori istintivamente, un collegamento epidermico. La ricerca timbrica è una costante della mia produzione, cerco di trovare un mio suono. Questo processo inizia già dalla scelta dello strumento, se si tratta del pianoforte, o degli strumenti se si tratta di una partitura con più combinazioni, sino ad arrivare poi alla scelta dello studio e/o del tecnico che curerà appunto il suono finale».

La tua carriera discografica non conta di molti dischi, mi pare due. Dopo l’esordio con “Seven” sei andato per un periodo a New York, tornato in Italia hai pubblicato “Zahir”. Il primo l’hai inciso da solo, mentre per il secondo hai coinvolto altri musicisti. Quali sono state le scelte che hai fatto per entrambi i dischi?

«Seven l’ho vissuto un po’ come come un primo esperimento. Non sapevo a cosa andavo incontro, era la prima volta che mi proponevo nella veste di compositore e performer e per me questo era già un passaggio alquanto delicato. Ho raccolto sette brani per pianoforte che avevo scritto negli anni e li ho registrati, senza preoccuparmi troppo del messaggio generale del disco. Per Zahir invece le cose sono andate diversamente, rientrando da New York avevo tante cose da raccontare… Mi sono chiuso di nuovo nella mia casa di campagna per tre mesi e ho buttato giù tutto. A oggi  lo ricordo come uno dei momenti creativi più intensi che abbia mai avuto. Avevo in mente un’idea ben precisa, un disco “world music” dove il pianoforte fosse al centro e il mio mondo gli girasse intorno, un concept album vecchio stile dove tutto è collegato, dall’inizio alla fine, sino alla grafica. Da qui la scelta di invitare ospiti con forti caratterizzazioni timbriche, l’uso del pianoforte preparato e/o sovrapposto su più tracce, di strumenti etnici, e una dose di elettronica per cercare un suono che risultasse unico. Non ultimo, doveva avere un chiaro riferimento geografico, volevo che l’ascolto portasse a “sud”, riconducendomi alla mia radice».

Come è stata l’esperienza statunitense?

«L’America è entrata nella mia vita a più riprese. Prima il Berklee a Boston per studio, poi il mio primo concerto all’estero proprio a New York, e poi di nuovo la Grande Mela per un’esperienza di vita indimenticabile, sotto tutti i punti di vista. C’è stato un momento in cui avrei anche potuto rimanerci stabilmente, poi però le cose sono andate diversamente. Ho visto una realtà sicuramente diversa dalla nostra, mi ha arricchito sotto vari aspetti e fatto riflettere, in particolare mi ha fatto capire quale poteva essere la mia personale ricerca, in quale direzione andare. Ho capito che probabilmente la nostra forza da questa parte dell’oceano, e soprattutto per noi provenienti da una penisola circondata dal mare e attraversata negli anni da ogni sorta di cultura, risiede in un codice scritto inconsciamente nel nostro DNA. Questo ci porta a costruire melodie e armonie  in un modo piuttosto che in un altro, a usare certe scale piuttosto che altre, ci viene naturale: è nella nostra natura. Un’inclinazione che ci rende unici e affascinanti agli occhi del mondo».

Quali differenze hai percepito tra i “due mondi”?

«Quando arrivai per la prima volta, l’aspetto che balzò subito ai miei occhi fu la visione della società multiculturale, un’idea di comunità per me nuova che ti allarga inevitabilmente la visione del mondo. A dire la verità le differenze le ho percepite più allora che che non adesso. Non so, ma ho come l’impressione che oggi il mondo si stia uniformato parecchio, non vedo più grosse distinzioni. Le culture “occidentali” sono ormai molto simili, negli stili di vita, nel modo di pensare, nella capacità e velocità di assorbire i cambiamenti. Tutto questo è dovuto naturalmente all’avvento di internet, la rete ci ha omologati e ha appiattito le caratteristiche autoctone. Questo si riflette anche sulla creatività, oggi è possibile ascoltare un cinese dall’altra parte del mondo che impara le canzoni in napoletano così come un lappone che balla la pizzica o un siciliano che suona musica indiana”.

Una delle tue ultime esperienze è stata come direttore musicale dello spettacolo “La febbre del sabato sera”. Cosa vuol dire lavorare per un musical e come ti sei trovato in quel ruolo?

«Un’esperienza nuova. Lavorare per un musical, e soprattutto in quella posizione, significa ricoprire un ruolo fondamentale per uno spettacolo in cui la musica è protagonista, come nell’opera. Tutto gira intorno alla figura del direttore musicale, dalla sua postazione dirige e coordina l’orchestra, i cantanti, le sequenze, attivando di conseguenza tutta la macchina tecnica e scenografica. È un ruolo di grossa responsabilità in cui bisogna essere molto svegli, richiede la massima concentrazione, il tutto si gioca sul filo di secondi e di meccanismi che richiedono la massima precisione. All’inizio, ammetto, c’è voluto un po’ per capire il funzionamento di questa macchina a orologeria, poi però tutto è diventato quasi meccanico e anche un po’ ripetitivo. Dopo circa novanta repliche, oltre che conoscere lo spettacolo a memoria ogni gesto era ormai perfettamente automatizzato».

I prossimi progetti dove ti porteranno?

«Sto già lavorando al terzo disco che come anticipato sarà un progetto in trio e avrà un taglio decisamente più “jazzistico”. È in via di definizione anche una collaborazione con un editore circa la produzione di un cd con mie partiture per orchestra. In generale non mi piace ripetermi, spero  sempre di esplorare nuovi mari».

 

(Tutte le foto sono di Giulia Marangoni)

 

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