A due anni dalla scomparsa, una retrospettiva alla Casa dei Tre Oci ricorda il grande fotografo attraverso duecento immagini selezionate da Denis Curti. Una mostra promossa dalla Fondazione di Venezia in partenariato con la Città di Venezia, visitabile fino al 26 agosto 2018.

Fulvio Roiter, Venezia, 1980 © Fondazione Fulvio Roiter
VENEZIA. Alberto Bevilacqua lo definì un rabdomante, una di quelle figure enigmatiche e un po’ magiche che svolgono il loro mestiere con la stessa determinazione con cui si compie un rito religioso, nel nome della verità e della bellezza. E la macchina fotografica fu per lui quella “bacchetta magica” con cui far sgorgare la bellezza dall’immagine quotidiana: così lavorava Fulvio Roiter (1926-2016) instancabile osservatore e viaggiatore, che dall’Italia all’Africa, dalla Spagna al Belgio, fino al Brasile, ha immortalato paesaggi e persone profondamente diversi, costruendo un suo personale atlante narrativo, una caleidoscopica “pastorale” che si caratterizza non tanto per la ricerca della bellezza, quanto per la costruzione di essa, attraverso un attento studio della luce, della posa, del contesto. L’estetica non è un mero esercizio, ma una condizione necessaria per l’esistenza e che ogni paesaggio o essere umano si porta dentro. Come scrisse egli stesso, una fotografia deve essere capace di condurre l’osservatore in mondi lontani, in posti segreti, e saper raccontare una favola intima e silenziosa. Una concezione che si apparenta con l’idea che aveva della bellezza, la quale doveva essere eleganza, essenzialità, pulizia, dolcezza. Sono caratteri sempre presenti nelle sue opere, che sono poesie fatte di forme e giochi di luce, atmosfere e silenzi.

Fulvio Roiter, Sibilo, 1949 © Fondazione Fulvio Roiter
Roiter nasce fotografo a Venezia, che seppe guardare con l’occhio del viaggiatore romantico, dello scopritore di angoli appartati e fiabeschi; una città di pietra e legno, adagiata sull’acqua, della quale ci mostra i due volti di città del passato e di città del presente; gli scatti in bianco e nero rimandano alle fotografie di fine Ottocento, quelle che circolavano ai tempi di Ruskin, per turisti raffinati e aristocratici, che scoprivano una città elegante, ma non priva di autentici scorci di vita popolare. Che Roiter ha riscoperto nel secondo Novecento, seguendo un sentiero che solo i veneziani autentici potevano conoscere. Le fotografie e colori, invece, ci parlano di una Venezia che, come per magia, si riscopre con la medesima anima di cento, duecento, trecento anni fa. Al di fuori degli orari o dei percorsi del turismo di massa, la città è ancora dei suoi abitanti, cattura con i suoi panorami e quei tramonti che sembrano dipinti da Turner, ma soprattutto avvolge con quegli scorci metafisici e le assolate atmosfere montaliane, e sprigiona tutto il suo fascino “per pochi”, per i solitari, i romantici, i poeti, che sulla scia di Ruskin ancora si aggirano per le sue calli e i suoi campielli. Dal fascino delle maschere veneziane, colte in una Piazza San Marco coperta di neve, al fascino franco-ispano-caraibico di New Orleans, visitata da Roiter in uno dei suoi innumerevoli viaggi per il mondo. Nell’assolata città della Louisiana, l’obiettivo si sofferma sul melting pot che scorre per le sue strade con invidiabile rilassatezza, e quell’idea sottesa di jazz che sembra scandire il ritmo della vita quotidiana. Immagini non iconiche di per sé, quelle di Roiter, ma frammenti di un personalissimo album di ricordi, che si aggiungono a tutti gli altri “catturati” nei vari Paesi visitati, dalla Spagna, al Belgio, al Messico, passando per il Portogallo e la Costa d’Avorio. Una ricerca senza confini, un lungo romanzo per immagini suddiviso in capitoli geografici. Ovunque si trovi, Roiter riesce a empatizzare con luoghi e persone, vi stabilisce un contatto intimo capace di interpretarne lo stato d’animo; dalla saudade dei portoghesi alla spensieratezza di New Orleans, dal misticismo messicano ai riti ancestrali africani. Fino alle drammatiche tensioni della corrida spagnola. Reportage di viaggio che non hanno semplice scopo documentario, bensì ampliano la prospettiva della fotografia per mezzo della quale l’immagine diventa racconto, indaga il presente e il passato del soggetto, spinge l’osservatore a interrogarsi, a entrare nella medesima sintonia raggiunta da Roiter. E ancora, i suoi nudi femminili possiedono la grazia degli analoghi dipinti di Renoir, quella comunione con la natura della quale valorizza il gioco di luci e ombre che a sua volta permette al soggetto di risaltare, di scoprirsi e rivelarsi in tutta la sua bellezza.

Fulvio Roiter, New Orleans French Quarter, 1985 © Fondazione Fulvio Roiter
La mostra documenta anche il rapporto che Roiter aveva con la natura, ancora nel nome della bellezza. Di ogni singolo albero, prato, striscia di deserto fotografati, ne sottolinea l’unicità, il respiro monumentale, arcaico, al limite dell’infinito. La natura come madre originaria che crea e accoglie la vita. Lo sguardo di Roiter è venato d’amore davanti a tanta grandezza, che non si misura tanto nelle dimensioni o nell’ampiezza dei panorami, bensì nella maestosità delle forme e nella delicatezza dei giochi di luce. La natura è quindi il rifugio dove l’essere umano può trovare sollievo alla sua angoscia moderna.
Tutta la fotografia di Roiter è sussurrata, mai magniloquente, e soprattutto è profondamente meditata, per raggiungere un equilibrio compositivo quasi scultoreo, per la maniera in cui tende a esaltare le forme e i valori plastici dei corpi con le relative ambientazioni in spazi ampi e ariosi. Anche per questa ragione, Roiter è stato un poeta dell’immagine, il cui sguardo si è sempre soffermato sull’individuo comune, spesso anche umile. Perché l’arte e la bellezza, molto spesso sono questioni di semplicità.
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