In oltre 200 opere da collezioni private, il racconto dell’affascinante cultura giapponese fra il Settecento e l’inizio del Novecento, fra samurai, paesaggi d’incantevole poesia, bellezza femminile e oggetti preziosi. Prodotta da Arthemisia, la mostra è patrocinata dal Comune di Bologna, dal Consolato Generale del Giappone a Milano e dalla Fondazione Italia Giappone. Da oggi e fino al 9 settembre 2018.
BOLOGNA. Nel 1661, lo scrittore giapponese Asai Ryōi, nei suoi Racconti del mondo fluttuante, esaltava il godimento dell’attimo presente, fatto di volta in volta di notti di luna, di ciliegi fioriti, di sakè; a questi piaceri l’individuo deve andare incontro lasciandosi portare “come una zucca che galleggia nella corrente del fiume”, imparando così ad apprezzare il godimento dell’effimero, del “mondo fluttuante”. La tradizione artistica dell’ukiyo-e significa appunto “immagine del mondo fluttuante”, e nacque nel Giappone del XVII Secolo, all’inizio dello shogunato Tokugawa, che riuscì a pacificare il Paese dopo secoli di lotte interne tra i vari feudatari. Conquistata la pace, esautorata la figura dell’imperatore, il clan Tokugawa regnò fino al 1867, e dette avvio a una prima modernizzazione del Paese, che vide lo sviluppo di tecniche agricole più efficaci e l’aumento della terra coltivata, che si tradusse in una maggior disponibilità di cibo e quindi di benessere della popolazione; pur non potendo contare su molti diritti né sulla possibilità di ascendere socialmente, il suddito giapponese delle classi contadine e mercantili aveva comunque garantito un buon tenore di vita materiale, anche grazie a un sistema fiscale non particolarmente pesante. Questa piccola e media borghesia ebbe la possibilità di sviluppare una propria cultura artistica, basata sull’edonismo cui faceva riferimento anche Ryōi. Si trattava però di un edonismo illusorio, una ricerca del piacere e della pace interiore che il suddito giapponese medio difficilmente riusciva a concretizzare. Infatti, la rigida organizzazione feudale delle classi sociali (simili alle caste indiane) non permetteva ascese sociali, e costringeva ogni individuo a rispettare un severo sistema di regole comportamentali, secondo i principi confuciani.
L’ukiyo-e, con i suoi raffinati colori, la bellezza degli alberi fioriti, l’eleganza di kimono decorati con raffinati motivi, il mondo sensuale delle cortigiane, rappresentava una sorta di chiave d’accesso, almeno nell’immaginario, a quello che molti individui non potevano avere, per ragioni di casta, o magari anche solo economiche. Si tratta quindi di una forma d’arte che risponde a un preciso bisogno politico da un lato, sociale dall’altro. Dal primo punto di vista, la diffusione di immagini del genere favoriva una sorta di pace sociale, domando le aspirazioni dei ceti medi grazie alla creazione di un immaginario collettivo che generava l’illusione di essere realmente parte di quel “mondo fluttuante” fatto di piaceri e ricchezze; dal secondo punto di vista, stretto in un’esistenza regolata dai rigidi principi morali del confucianesimo, il suddito giapponese avvertiva la necessità di rifugiarsi in un mondo piacevole, anche se illusorio. Una necessità che nei secoli non è cambiata: la società giapponese è ancora molto rigida, i rapporti sociali improntati alla formalità, e la socializzazione non particolarmente approfondita. Come fino al primo Novecento si ricorreva agli ukiyo-e, oggi il giapponese medio insegue le proprie illusioni nei cosiddetti soap-lando (locali erotici) o nei caffè a tema, dove per una sera può travestirsi da samurai, da attore, da cantante, da donna.
Un accostamento con l’era contemporanea, necessario per spiegare l’importanza che questo tipo di stampe artistiche ebbe nel Giappone antico. E che al di là del significato sociologico, ha rappresentato una fase importante per l’arte giapponese. Nell’anno del 150° anniversario dell’avvio di rapporti diplomatici fra Italia e Giappone, dopo Roma anche Bologna rende omaggio alla cultura nipponica con la mostra Giappone. Storie d’amore e guerra, curata da Pietro Gobbi, che proprio attraverso gli ukiyo-e racconta un popolo visto nei vari aspetti della sua cultura.
Eseguiti come xilografie inchiostrate per impregnamento, gli ukiyo-e richiedevano particolare perizia, ed erano corredati dal sigillo della censura, che controllava non ci fossero deviazioni all’ortodossia politica. Lo scopo di queste immagini era quello di creare un senso di appartenenza e identità, così da poter contare su sudditi fedeli e se necessario pronti a sacrificarsi per la patria. La mostra, ampia e molto ben documentata, racconta gli aspetti principali della cultura giapponese toccati da artisti quali Hiroshige, Utamaro, Hokusai; fondamentale il rapporto con la natura che la società giapponese aveva, e che anche indirettamente veniva sempre ricordato negli ukiyo-e. Ad esempio, i raffinati kimono delle cortigiane erano decorati con simboli differenti a seconda della stagione dell’anno, e con essi cambiavano anche i colori. La donna, intesa come oggetto di piacere, è un soggetto importante all’interno della società giapponese, depositaria di una sapienza raffinata che va dalla grazia della posa e della gestualità alla competenza nella cerimonia del tè, o all’abilità nel suonare strumenti musicali. Non tutti potevano aspirare a frequentare le cortigiane d’alto bordo, e la maggior parte degli uomini doveva ripiegare sulle cortigiane di strada (le teppo), spesso condannate a un’esistenza di soprusi. Ma nel “mondo fluttuante” delle immagini ufficiali, l’eventuale sofferenza della donna non era contemplata. Anche il sesso inteso come atto di riproduzione aveva e ha molta importanza in Giappone, e grazie a una blanda censura, gli artisti potevano sfogare le loro fantasie, anche esagerando le proporzioni degli organi sessuali, o immaginando abbracci particolarmente ardenti. Questo tipo di stampe, dette shunga, avevano particolare successo anche se nella realtà dei fatti la vita sessuale dei coniugi si limitava alla sola procreazione, e la dimensione del piacere era lasciata al di fuori del matrimonio, appunto per le cortigiane. Un senso di solitudine familiare che ancora oggi, in parte affligge la società giapponese.
Il paesaggio naturale e quello urbano rientravano nella logica della costruzione di un immaginario comune, per cui città e regioni geografiche del Paese potevano essere conosciute anche da chi non aveva la possibilità di lasciare anche per qualche tempo il villaggio natio; se le vedute delle città davano l’idea del progresso raggiunto dal Giappone moderno, i paesaggi naturali rimandano all’idea della sacralità del territorio, al fluire del tempo attraverso le stagioni, all’idea del principio primo che tutto abbraccia e tutto vivifica. Fiori e animali hanno ognuno un proprio significato simbolico.
Altrettanto importanti in Giappone, il mondo dei samurai e del teatro No e Kabuki; i primi, rappresentarono fino all’era Meiji (1867-1912) la classe dominante del Paese, che era riuscita come detto sopra, a marginalizzare l’imperatore. Il teatro rappresentava invece lo svago preferito dalle donne; il No aprì al popolo solo a fine Ottocento (prima era riservato all’aristocrazia), pertanto gli ukiyo-e erano l’unico mezzo per le donne di umili origini di intuirne almeno lo svolgimento.
Qualunque fosse il soggetto, gli artisti dell’ukiyo-e utilizzavano sempre uno stile idealizzato, che rendeva uomini e donne alla stregua di simboli di qualcosa (del piacere, del teatro, dell’onore, della guerra), e la delicatezza dei colori sembra essere la metafora della leggerezza di questo linguaggio artistico che appunto parla per concetti e simboli. A completare la mostra una ricca selezione di oggetti come pipe, tabacchiere, ventagli, ma anche elmi e armature di samurai.
Si esce da Palazzo Albergati con la sensazione di aver scoperta una cultura di cui in Occidente ancora poco si parla e poco si conosce, una cultura che qui quasi disorienta per la sua rigidità morale, al limite della spietatezza, una società che “schiaccia verso il basso” ma con la sottigliezza di non farlo percepire all’individuo, cui offre un mondo illusorio dove perdersi nelle brevi pause di una vita dominata dal senso del dovere.
(In copertina: Keinen Imao, Ciliegio in fiore e uccellino kigitaki, 1885)
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