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8 Nov

La scultura introspettiva di Kenjirō Azuma

A un anno dalla scomparsa, Pistoia Capitale Italiana della Cultura omaggia Kenjirō Azuma, che fu allievo di Marino Marini e sviluppò una sua personale visione della scultura. A Palazzo del Tau, fino al 7 gennaio 2018.

Uomo seduto, 1957

Ci si accosta all’opera di Kenjirō Azuma (1929-2016) con quel rispetto che si prova davanti a qualcosa di sacro, stante l’afflato spirituale che la sua scultura possiede. Una scultura che spiega l’uomo, e non viceversa, che nasce dall’urgenza morale di dare un senso alla propria esistenza. Infatti, la carriera artistica di Azuma è stata la risposta a un profondo vuoto spirituale: a seguito della sconfitta militare dell’Impero Giapponese del settembre 1945, le dure condizioni di pace imposte dal governo statunitense prevedevano anche l’abolizione della statura divina dell’allora imperatore Hirohito. Dopo un millennio, cadeva uno dei capisaldi della cultura giapponese, e cadevano anche le certezze di Azuma, kamikaze mancato dell’aviazione giapponese e uomo in profonda crisi spirituale in quell’immediato dopoguerra, che si sente smarrito in un Giappone colpito dalle due devastanti bombe H di Hiroshima e Nagasaki. «La mia arte è una ricerca per ricostruire me stesso». Niente spiega il senso dell’arte di Azuma in maniera più efficace delle sue stesse parole. Attraverso quel continuo esplorare i meandri della materia, lo scultore la manipola e la plasma come fosse la pagina di un ideale diario cui affidare riflessioni e sensazioni, dubbi e paure, e da personale il suo discorso artistico si fa universale, afferente al mistero dell’uomo nella sua totalità. Per questo, una volta raggiunta la maturità artistica, abbandonò la rappresentazione antropomorfa per dedicarsi a quella dell’anima. Per questa ragione le sue opere possiedono una leggerezza che non è soltanto materiale, ma anche e soprattutto spirituale.

MU – 780, 1978

Se, per citare Nathaniel Hawthorne, il chiaro di luna è una scultura, allora Azuma scolpisce quell’impalpabile leggerezza a metà fra l’onirico e lo zen, attraverso un linguaggio stilistico scarno, al limite dell’elementare, cercando di dare ordine a spazi, bisogni, pensieri, ragionamenti. Con pochi, sapienti tratti – al punto da richiamare alla mente la “sublime povertà” del vocabolario di Leopardi suggerita da Giuseppe Momigliano -, Azuma unisce la scultura all’architettura, dimostrando una propensione all’astrazione di carattere geometrico oltre che biomorfo, sempre mantenendo, però, quell’atmosfera “primitiva” che lo lega a un’interiorità atavica.

Formatosi all’Università di Tokyo fra il 1949 e il 1953, dopo la laurea in scultura giunse a Milano nel 1956 grazie a una borsa di studio, e a Brera divenne prima allievo e poi assistente di Marino Marini, un artista che aveva molto studiato e ammirato già negli anni universitari. Al pari del maestro toscano, anche Azuma ebbe viva la curiosità per quanto accadeva nel mondo dell’arte, nella ricerca di un suo stile personale, rimase affascinato dalle sperimentazioni spaziali che sin dagli anni Trenta avevano portato avanti scultori come Barbara Hepworth, Henry Moore, Jean Arp, ma anche artisti come Fontana e Scheggi. Se l’Uomo seduto (1957) ancora richiama alla poetica di Marini, già pochissimi anni dopo Azuma percorre il suo personale sentiero, e si ispira allo spazialismo per esprimere la sua ricerca interiore; piani e corpi forati, come le celeberrime gocce, esprimono la nettezza formale tipica del pensiero filosofico giapponese di armonia cosmica. Nel cercarla, Azuma si muove fra pieni e vuoti, luci e ombre, levità e gravità, i vari yin e yang della composita realtà umana, ognuno dei quali necessario a mantenerne l’unità.

La scultura di Azuma si sviluppa, materiale antico per eccellenza, che però riveste di modernità a partire dagli anni Sessanta, quando dà avvio a un’indagine che è spaziale e concettuale insieme. Tuttavia, pur esponendo opere pregevoli, la mostra non approfondisce la poetica scultorea di Azuma, e lascia l’impressione di un’occasione in parte mancata, l’ennesima all’interno di una vetrina importante come è il ruolo di Capitale Italiana della Cultura, ma che la precedente amministrazione non è stata capace di cogliere. Infatti, bisogna considerare come le mostre degli autori più importanti del cartellone siano state inaugurate nell’ultimo terzo dell’anno, a partire da luglio Boldini, seguendo poi Marini in settembre e appunto Azuma lo scorso 22 ottobre, quando almeno la mostra di Marini (l’artista pistoiese più importante e il più conosciuto nel mondo), avrebbe potuto accompagnare tutta la durata dell’anno della Capitale. La stessa cittadinanza pistoiese, in larga parte, ha vissuto questa vetrina con distacco e anche indifferenza, delusa dalla mancanza di un’organizzazione culturalmente all’altezza. Si è infatti data priorità a una serie di eventi minori, come la mostra su Gavazzi a Palazzo Fabroni, che hanno però data l’impressione di una “capitale” assai provinciale, priva di un respiro europeo, o almeno nazionale. Poca promozione, poche mostre di alto livello, e non sempre ben gestite: questa su Azuma, così come l’altra dedicata a Giovanni Pisano, sono gli esempi più calzanti delle occasioni perse, di quella mancanza di competenza culturale che da Nord a Sud avvilisce l’intero Paese.

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