Duchamp, Magritte, Dalì. I rivoluzionari del ‘900, curata da Adina Kamien-Kazhdan, è l’esauriente mostra che racconta la parabola di due movimenti artistici che riformularono i canoni dell’arte, in 180 opere provenienti dall’Israel Museum di Gerusalemme. A Palazzo Albergati, fino all’11 febbraio 2018.
BOLOGNA. Fra le macerie materiali e morali lasciate dalla Grande Guerra, i Dadaisti prima e i Surrealisti subito dopo si riproposero di riscrivere i fondamenti dell’espressione artistica, liberandola dai condizionamenti del pensiero razionale, affidandosi alle libere e istintive associazioni del subconscio, spesso ironiche e provocatorie.
Ad aprire la strada a questa rivoluzione estetica e concettuale fu, nell’estate del 1916 a Zurigo, il gruppo del Cabaret Voltaire che si riuniva attorno a Tristan Tzara, Marcel Janco e Hans Arp: tenendo una sorta di “conferenze recitate”, questi artisti rovesciavano sul pubblico il loro turbine sovversivo riassumibile nel rifiuto del concetto di bellezza, degli ideali, della ragione positivistica, del progresso e del modernismo, ai quali contrapporre l’ironia, la provocazione, l’irrazionalità. Si trattava di rifondare l’arte rompendone qualsiasi schema logico, e in un certo senso si tratta di un’anticipazione di quella che sarà la creatività artistica indotta dagli stupefacenti fra gli anni Cinquanta e Sessanta. I Dadaisti riportano la fantasia al potere, in anticipo sul ’68, così come gettano le basi per quell’arte “liberata” che Dubuffet chiamerà più tardi Art Brut. Alla radice di questa urgenza creativa, l’inconscia ribellione contro un malessere sociale e morale causato dallo sradicamento della millenaria società rurale europea, attraverso la massiccia espansione della civiltà industriale, che a sua volta aveva generata la corsa al profitto, la corsa agli armamenti, e il primo inurbamento su larga scala che portò numerosi disagi materiali e morali al ceto ex contadino divenuto operaio. L’Europa attraversava quindi una crisi che sarebbe appunto sfociata nella Grande Guerra. La razionalità umana, tanto decantata dai Positivisti, non parve più una risorsa troppo affidabile per governare le sorti dell’umanità, e la reazione dei Dadaisti si poneva anzitutto come una critica sociale. Per la prima volta, l’arte si fonde prosaicamente con la vita, poiché il concetto di readymade introdotto da Duchamp riconosce come opera d’arte oggetti quotidiani, come una comune ruota di bicicletta; la novità sta nel cambio di prospettiva, nel presentare oggetti comuni ma sradicati dalla loro abituale funzione. S’innesca un gioco di scomposizione, provocazione, di annullamento dell’estetica come si era abituati a conoscerla.
Un gioco che interessa anche i materiali utilizzati per comporre le opere d’arte: nascono i collages con pezzi di carta di recupero, ritagli di giornali, scatole di fiammiferi, etichette pubblicitarie, biglietti del treno. Kurt Schwitters, Lajos Kassák, Hanna Höch: in parte ispirandosi al concetto di simultaneità già introdotto dai Cubisti, il collage dadaista si spinge oltre, creando pratiche estetiche anche sensoriali, ad esempio con la lacerazione in piccole parti del materiale di partenza.
Ne risultava, pur nell’accuratezza formale della composizione, una metafora del caos quotidiano, ma anche delle libere associazioni della mente, un po’ come lo stream of consciousness di James Joyce, o, più ancora, le prose di Lautreamont. L’immagine prevaleva sul concetto, e la mancanza di nessi logici fra un elemento e l’altro causava una sorta di esaltazione creativa. A tal proposito, il concetto di “automatismo” lasciava libero sfogo alla manualità, attraverso il disegno e altre tecniche come il raschiamento, la colata, la decalcomania. Il risultato, che seguiva le “leggi del caso”, veniva poi successivamente ritoccato per sviluppare quelle forme compiute che eventualmente erano apparse sulla carta o sulla tela.
L’esperienza Dadaista, stante il carattere eccessivamente radicale che la caratterizzava, terminò fra il 1922 e il 1923, quando si dissolse il suo effetto “rivoluzionario”. Infatti, la sua posizione “contro l’arte”, l’indifferenza al suo lato commerciale e il disinteresse per la modernità, sfociarono nell’inaridimento creativo, da cui lo salvò André Breton, fondatore nel 1924 del movimento Surrealista, che raccolse tutti o quasi gli artisti che avevano partecipato alla precedenza esperienza. Fortemente influenzato dagli studi psicanalitici di Freud, in particolare sui meccanismi di creazione onirica della mente umana, Breton introduce il concetto e il metodo dell’automatismo, ovvero la produzione di un’opera d’arte attraverso il puro istinto, senza mediazioni dell’intelletto razionale. Il soggetto delle opere non è più la realtà, ma il pensiero dell’artista, il suo subconscio e pertanto il concetto di automatismo conobbe un ulteriore sviluppo. Fantasie, pulsioni, istinti, paure, prendono corpo sulla tela, in fotografia, o per tramite di manufatti e assemblaggi.
Sulla scorta della psicanalisi freudiana, il desiderio sessuale divenne un tema ricorrente fra i Surrealisti, che leggevano nella donna un doppio volto d’ingenuità e seduzione; ma legati ancora a una logica patriarcale, non riescono ad elevare la donna al di sopra del concetto di oggetto. Il corpo femminile – ad esempio nelle fotografie di Man Ray, nei disegni di Salvador Dalì o Max Ernst -, viene dissezionato, lacerato, scomposto, per essere guardato ma anche per estrinsecare attraverso di esso la sessualità (a tratti anche perversa) maschile.
All’interno del variegato mondo surrealista, il concetto di sogno rivestiva un’importanza basilare, e fra i massimi interpreti dell’onirismo troviamo Salvador Dalì e René Magritte, creatori di immagini suggestive, sottilmente disturbanti, cariche di una tensione emotiva che nasce da accostamenti spiazzanti e dalla deformazione dei corpi. Si apre all’osservatore un mondo “altro”, vicino alle fantasie di Lewis Carroll, e che intercetta anche la Metafisica di de Chirico e Raoul Hausmann. Anche il cinema portò il suo contributo all’indagine onirica: attraverso le tecniche del montaggio, della sovraincisione, della dissolvenza, seppe ampliare l’immobilità della tela; Un Chien Andalou, (1929) di Dalì e Luis Buñuel Portolés fu il manifesto di questo cinema.
Altro interessante campo d’applicazione del Surrealismo, la mitologia antica e la sua simbologia; in particolare Max Ernst, attingendo alla cultura dei Nativi Americani, propendeva per un ritorno dell’artista all’armonia spirituale con la natura, che il dilagare della modernità tecnologica aveva cominciato a sradicare. A fianco delle sue pitture dedicate ad alberi e animali, le sculture di Jean Ar, con il loro dinamismo, si rifanno alle danze sacre balinesi, mentre Victor Brauner crea una pittura di sincretismo fra Cristianesimo, misticismo dei Rosacroce, culti primitivi africani. Opere che non sono semplici esercizi di stile, ma danno voce all’utopia di un ritorno al passato. Il periodo che va dal 1924 – anno della nascita, fino alla metà degli anni Quaranta, in cui il movimento perse di slancio -, rivelò il drammatico volto del Novecento, fra nazionalismi, totalitarismi, la Grande Depressione, la Seconda Guerra Mondiale, la società di massa e dei consumi. Sognare, sembrava l’unica arma ancora in possesso degli artisti.
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