Dopo la forzata chiusura e la riprogrammazione a causa dell’emergenza da covid-19, riapre al pubblico una delle mostre più attese e importanti della stagione culturale: Raffaello. 1520-1483, che in cento capolavori autografi o comunque a lui riconducibili, traccia la carriera di colui che fu considerato “Divino” per l’eleganza della sua pittura. Importanti prestiti da tutto il mondo contribuiscono all’eccezionalità di una mostra ospitata nella prestigiosa cornice delle Scuderie del Quirinale, dove rimarrà visitabile fino al 30 agosto 2020.
ROMA. In occasione dei 500 anni dalla prematura, e in parte ancora misteriosa, scomparsa del Divino Urbinate, l’Italia gli rende omaggio con la più ampia retrospettiva a lui dedicata e sinora mai realizzata, uno splendido ritratto per immagini per colui che, con Michelangelo, rappresentò uno dei due volti del secondo Rinascimento: se il toscano fu gladiatorio e sanguigno, Raffaello fu lieve e gentile, e alle problematiche interiori contrappose la serenità della “dolce vita” delle corti rinascimentali. Punto di forza della mostra, la presenza di prestiti dai più importanti musei del mondo, a cominciare dalle Gallerie degli Uffizi, la Galleria Borghese, il Louvre, il Prado, per finire con l’Albertina di Vienna e il Metropolitan di New York. Non potendosi, per ovvie ragioni, spostare i grandiosi cicli di affreschi (che più identificano Raffaello nell’immaginario popolare), la mostra romana si concentra sulla sua carriera pittorica su tela, che se ha minor forza narrativa, ha però il pregio di mantenere intatta (a volte anzi persino a livelli più alti), quella delicata eleganza che è la cifra dell’Urbinate. Si apprezzano così gli incarnati color di pesca, la dolcezza degli sguardi muliebri, la levità dei cieli azzurri, che fecero di lui il pittore dell’utopia, valente e delicato cantore di una società civile e politica come avrebbe dovuto essere (e invece non era): nei suoi dipinti rifulgono lo splendore elitario della corte, l’incontro fra la virtù e il potere (che pure in qualche caso si realizzò davvero), le sue donne rilucono di pudica bellezza, di quella modestia che non sarebbe dispiaciuta nemmeno a Dante; i colori non sono mai tonitruanti, ma sempre sussurrati, brillanti ma mai abbaglianti, così come la plasticità muscolare non ha niente di gladiatorio. La mostra, articolata secondo un’idea originale, ripercorre a ritroso l’avventura creativa di Raffaello, da Roma a Firenze, da Firenze all’Umbria, fino alla nativa Urbino, e il visitatore ha l’impressione di essere un esploratore dei tempi antichi che risale un fiume maestoso, dalla foce alla sua sorgente. La foce di Raffaello fu Roma, con la sue splendida corte papale, dove giunse su invito del munifico Giulio II, che in quegli anni, grazie anche a Michelangelo e Bramante, stava facendo dell’Urbe una nuova Atene. Punti focali della sezione d’apertura, la riproduzione in scala originale dell’edicola con il sepolcro all’interno del Pantheon, che conserva le sue spoglie mortali; un elemento che può spingere il pubblico a una successiva visita in Piazza della Rotonda; e ancora, gli splendidi ritratti dei Papi che lo ospitarono a Roma, Leone X e Giulio II, dei quali più che le qualità spirituali, Raffaello omaggia quelle di munifici sovrani rinascimentali, nonché di raffinati mecenati.
Personalità ardente e decisa, quasi a dispetto della levità delle sue opere, Raffaello era caratterizzato anche da un certo narcisismo che si accompagnava all’ambizione. Per questo era fortemente intenzionato a lasciare nell’arte una sua personale cifra e, fortificato dalla lettura di Baldassarre Castiglione, rifiutò qualsiasi pedissequa imitazione dei vari pittori che conobbe, ed inseguì invece il “suo” stile, che poté costruire grazie certamente all’innato talento per la pittura, ma anche all’opportunità di poter conoscere la grande pittura umanistica del tardo XV Secolo. Il rapporto con Castiglione è documentato in mostra dal ritratto che ne eseguì, e dalla celebre lettera scritta “a quattro mani” e indirizzata a Papa Leone X, che si voleva sensibilizzare sulla necessità di tutelare il patrimonio architettonico antico; si tratta di uno dei primi appelli in tal senso. Raffaello non fu quindi solo pittore, ma anche antiquario e architetto, e la mostra romana ha il pregio di far scoprire al pubblico questi suoi due volti meno noti. Circa l’ultimo aspetto, alcune riproduzioni in 3D di progetti raffaelleschi (fra cui il perduto Palazzo Braconio) testimoniano la poliedricità del suo genio. Del periodo fiorentino, fra il 1504 e il 1508, spiccano Il sogno del cavaliere (1504), e l’autoritratto (1506-8), mentre negli anni della formazione in Umbria era stato fondamentale l’incontro con il Perugino, del quale fu allievo anche se le notizie in merito sono poche. Resta però il fatto che il giovane Raffaello ebbe la possibilità di esprimere tutto il suo talento, così come l’ebbero, da una parte all’altra della Penisola, tanti altri giovani artisti. L’esatto contrario di quanto accade oggi in un’Italia vergognosamente gerontocratica, da dove tanti giovani, artisti o no, sono costretti a emigrare. Pur celebrando Raffaello, forse non si è ben compreso lo spirito del Rinascimento.
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