A Ravenna non si può non sentirsi una “tessera”, parte infinitesimale di un tutto straordinariamente potente nelle sue declinazioni classiche e medievali. Per non lasciarmi stordire dalla bellezza silente di San Vitale, mi sono rifugiata al Mar, il Museo d’arte della città. Pinacoteca con una naturale vocazione conservativa che con il Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico si è dotata anche di uno spazio pertinente con il DNA della città, il Mar ha anche una vivace attività espositiva frutto delle ricerche scientifiche in house e spesso capace di proporre mostre di richiamo nazionale. Come quest’ultima, curata da Alfonso Panzetta con Daniele Torcellini, aperta fino al 7 gennaio 2018, Montezuma, Fontana, Mirko. La scultura in mosaico dalle origini a oggi: oltre centotrenta opere che sperimentano, spesso con esiti altissimi, il rapporto tra la scultura e il mosaico.
L’assunto principale dell’esposizione è quello di proporre tutto ciò che avvenne dopo il cosiddetto “corto circuito”, per la prima volta individuato e descritto grazie alla mostra del 2014 “Scultura e mosaico”, al Cassero di Montevarchi. Allora il percorso, di una quarantina di opere, era da Fontana a Pietro D’Angelo, in dialogo con l’affascinante scultura mesoamericana. Oggi la panoramica è più estesa, ma l’ispirazione sembra essere la stessa: un’impugnatura antropomorfa di coltello sacrificale, datata prima metà del Cinquecento, conservata al Museo delle Civiltà di Roma e qui esposta in apertura della mostra. Il rimando è agli anni Trenta del Novecento, quando Gino Severini riscoprì l’uso del mosaico in funzione decorativa e a Roma si tenne una mostra sull’arte dell’antica America Latina. Poi vennero Lucio Fontana e Mirko Basaldella, suggestionati dal mosaico e dall’arte degli aztechi e di altre civiltà dell’America Centrale, che avevano entrambi scoperto in momenti e luoghi diversi. Ai precursori Fontana e Mirko (rappresentati in mostra con le notissime opere degli anni Quaranta “Il gallo” e “Furore”) seguirono un momento di disinteresse sostanziale degli artisti nel primo ventennio del dopoguerra e un rinnovato e definitivo interesse creativo negli anni Settanta e Ottanta. Su tutti spiccano i nomi di Zavagno e Licata, sperimentatori di materiali che aprirono definitivamente la strada della nuova scultura mosaicata: e, dopo di loro, di Antonio Trotta, Athos Ongaro e della Transavanguardia di Chia e Paladino, artisti che hanno fatto della scultura mosaicata una scelta non episodica, attirati dai nuovi materiali di origine sintetica che hanno permesso il superamento dei limiti tradizionali delle malte cementizie e reso tecnicamente meno complessa l’esecuzione musiva sulla tridimensionalità.
Con una storia che continua, perché dalla seconda metà degli anni Ottanta ad oggi sono tante le opere di scultura in mosaico. Sempre più praticata, sia come scelta occasionale che come scelta principale, al punto che oggi la scultura mosaicata è perfettamente autonoma. E bene fa il Mar ad individuare in questo processo alcuni momenti di visibilità internazionale realizzati a Ravenna, come la tomba di Rudolf Nureyev a Parigi – inamovibile, ma presente in allestimento mediante una installazione virtuale e multimediale – ma anche le nuove sensibilità sui concetti di accumulo, assemblaggio parcellizzato e “poetica dell’oggetto” messi in campo dal Nouveau Realisme francese e poi dalla Nuova Scultura Britannica, per poi proseguire con elementi di spiccata originalità sino alle attuali generazioni, che lo impiegano in modo sempre più innovativo e inatteso e che sono ben rappresentate in mostra.
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