È considerato una delle più promettenti giovani bacchette dell’odierno panorama musicale. Stasera inaugura il 44° Festival della Valle d’Itria a Martina Franca con Giulietta e Romeo di Vaccaj.
Sesto Quatrini, romano, classe 1984, compositore e direttore d’orchestra, studi musicali nella sua città, poi il perfezionamento tra L’Aquila e Milano. Due anni da assistente e cover conductor del Maestro Fabio Luisi alla Metropolitan Opera di New York e l’inizio della collaborazione con il Festival della Valle d’Itria.Una carriera in rapida scesa, la sua. Tra gli impegni recenti e futuri: il debutto all’Opera di Vilnius con una nuova produzione de I Capuleti e i Montecchi e a Torino con un concerto in Piazzetta Reale, nell’ambito di “Torino Estate Reale” (con l’Orchestra del Teatro Regio e musiche di Gershwin e Bernstein); concerti con l’Orchestra Sinfonica Abruzzese, con la Filarmonica Toscanini, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale Lettone e con le orchestre dell’Opéra de Saint-Etienne, della Radio Slovacca e della Radio Ungherese; il debutto al Teatro Filarmonico di Verona con un concerto sinfonico e con Le nozze di Figaro e al Teatro La Fenice con L’elisir d’amore. Lo incontriamo in occasione dell’inaugurazione del 44° Festival della Valle d’Itria per domandargli di sé e della sua musica.
Il passaggio dallo studio di uno strumento (tromba) alla composizione e, infine, alla direzione d’orchestra: come è avvenuto e cosa ha guidato, da ultimo, la sua scelta?
«Il primo passaggio, dalla tromba alla composizione, è avvenuto per mia curiosità personale. Lo studio dell’armonia e della forma per gli strumenti a fiato nei conservatori italiani è molto lacunoso, purtroppo. Ho cercato quindi di indagare i sistemi alla base della musica occidentale e da lì mi sono talmente appassionato alla composizione che ho continuato tutti gli studi possibili della materia fino al biennio di specializzazione. Il passaggio alla direzione è stato invece guidato dalla voglia di interpretare, di dire la mia, sperimentando su me stesso l’eterna dialettica che divide la creazione dall’interpretazione. Sono ancora un compositore, direi in “sonno”, spero di trovare occasioni e tempo per tornare a scrivere».
Inaugura il prossimo 13 luglio il Festival della Valle d’Itria con Giulietta e Romeo di Vaccaj: qualche anticipazione?
«È un’opera meravigliosa, a torto dimenticata. Bellini ha attinto molto dalla partitura di Vaccaj per il suo I Capuleti e i Montecchi. Il cast è straordinario così come l’orchestra e il coro. Sarà uno spettacolo davvero commovente, curato in ogni minimo dettaglio dalla regista Cecilia Ligorio e il suo staff. Non resta che venirci a vedere…»
L’esperienza di assistente e cover conductor di Fabio Luisi al Metropolitan di New York: in che modo l’ha arricchita e cosa ha significato per la sua carriera?
«Mi ha arricchito sotto tutti i punti di vista. Con il Maestro Luisi ho imparato tutto ciò che oggi metto in atto camminando sulle mie gambe. Assisterlo al Met è stata anche l’opportunità di essere in contatto con i più grandi cantanti del circuito lirico e imparare quotidianamente da loro molti segreti del mestiere. Fabio Luisi è stata la chiave di volta della mia carriera, si sono palesate tante opportunità di collaborazione ma soprattutto si è generato internamente un processo di autostima. Assistere un grandissimo artista aiuta a sentirsi più capaci. Se poi si sanno cogliere tutti i suggerimenti, ecco che si hanno in mano gli strumenti per poter fare bene».
La sua idea di leadership?
«Un leader è un trascinatore. Nel caso specifico del direttore d’orchestra dissento con la narrazione odierna che vede il direttore, soprattutto se giovane, ridimensionato rispetto al passato nella sua leadership. Un direttore deve sempre assumersi le sue responsabilità, adempiendo a tutti gli oneri che lo riguardano sia dal punto di vista musicale che politico. Talvolta dovendo assumere anche posizioni impopolari».
Cosa si aspetta dall’orchestra e cosa ritiene che l’orchestra si aspetti da lei?
«Io mi aspetto professionalità, studio, precisione, gentilezza, rigore e, soprattutto, passione, amore e abbandono incondizionati per il proprio lavoro. Credo che l’orchestra abbia le stesse aspettative, con l’aggiunta del sopraccitato ruolo di leader».
Repertorio sinfonico vs repertorio operistico. Cosa sente maggiormente nelle sue corde e perché?
«Entrambi. Anche se ad oggi sento che l’opera sia il mio habitat naturale. Concorrere alla creazione di spettacoli “totali”, così complessi e con lunghi periodi di gestazione non mi stanca mai, anzi mi appassiona ogni giorno di più, oltre a essere motivo di indagine profonda su me stesso».
Ha dei riferimenti tra i “mostri sacri del passato”? E se sì, cosa ammira particolarmente di ognuno di loro?
«Uno su tutti Leonard Bernstein, in quanto il suo approccio orgiastico e dionisiaco alla musica a mio parere rimane un unicum nella storia. Lo sento molto mio. Certamente riconosco invece in Carlos Kleiber il massimo livello raggiunto nella categoria dell’Apollineo. Tra i direttori italiani sono rimasto folgorato dalle seppur poche esecuzioni di Guido Cantelli».
Sono tante oggi le giovani e agguerrite bacchette del panorama musicale internazionale ma cosa, a suo avviso, rende un direttore un vero fuoriclasse?
«Certamente la magia del concerto e della performance: il fuoriclasse è colui che all’atto performativo riesce naturalmente non solo a migliorare il lavoro svolto nelle prove, ma anche a creare un pathos tanto forte da coinvolgere se stesso, i suoi musicisti e il pubblico in un atto di comunione universale».
Impegni futuri che ha piacere di segnalare?
«Senza dubbio il ritorno alla Fenice con La traviata, Il barbiere di Siviglia e un galà il 2 settembre. I debutti ne La Bohème a Vilnius, nella Tosca a Piacenza, in Carmen al Maggio, nonché a Budapest e Tokyo».
Sogni nel cassetto legati alla professione?
«Sarei onorato di poter servire il mio paese dirigendo stabilmente un teatro italiano in futuro e un giorno chiudere il cerchio aperto qualche anno fa al Metropolitan di New York dirigendo un titolo “mio”».
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