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3 Dic

Soffici e Rosai, fra avanguardia e ritorno all’ordine

Al Museo Soffici di Poggio a Caiano, 52 dipinti e 20 disegni, equamente suddivisi fra i due artisti, distribuiti in un percorso di confronto fra due differenti maniere di narrare e dipingere il paesaggio toscano. Ad arricchire la mostra, una selezione di lettere, giornali, fotografie, libri, che documentano l’attività intellettuale dei due pittori. Fino al 7 gennaio 2018.

POGGIO A CAIANO (Firenze). Sotto quell’apparenza idilliaca di Paese a vocazione rurale, immortalato dai vedutisti e dalla scuola naturalista, l’Italia del primo Novecento era in realtà assai inquieta, stretta fra le agitazioni operaie e contadine, le tensioni politiche della guerra di Libia, e quel clima di irrequieta incertezza che si respirava in Europa fra artisti e intellettuali e che appunto si risentiva anche al di qua delle Alpi. La nascita del Futurismo nel 1909, per iniziativa di Filippo Tommaso Marinetti, sancì anche in Italia la presenza dell’Avanguardia, e contribuì a riscaldare l’ambiente intellettuale. Celebri le risse all’altrettanto celebre caffè Giubbe Rosse di Firenze, così come nota è la polemica che scoppiò fra Giuseppe Prezzolini e Ardengo Soffici, con quest’ultimo che uscì dalla Voce nel 1913 per fondare Lacerba.

Ardengo Soffici, Sera di Primavera, 1938

Toscano dal respiro europeo, quell’Ardengo Soffici da Rignano sull’Arno, che fu legato da intensa amicizia con Ottone Rosai, pittore fiorentino dallo sguardo più intimo, ma non meno profondo. A ripercorrere quel loro percorso artistico, tra similitudini e differenze, la mostra Soffici e Rosai. Realismo Sintetico e colpi di realtà, curata da Luigi Cavallo e Giovanni Faccenda, che copre l’arco temporale che va dal 1910 al Secondo Dopoguerra. Il paesaggio toscano è indubbiamente fra i più belli al mondo, e fra coloro che seppero soffermarvi lo sguardo, cogliendone ogni minima sfumatura lirica, vi furono senza dubbio Ardengo Soffici (1879 – 1964) e Ottone Rosai (1895 – 1957). Entrambi scrittori e pittori, cantori della Toscana e del suo paesaggio, li unì il fervente interventismo che li vide volontari nell’Esercito Italiano per combattere l’Impero Austroungarico, e ancora il consenso al Fascismo (ma in ottica moderata). Da un punto di vista artistico, dopo la formazione accademica, mossero i primi passi nell’ambito dell’avanguardia futurista, ma con convinzioni differenti.

Ardengo Soffici, Bottiglia e candelieri, 1913

Dalla natia Rignano, Soffici si trasferì a Poggio a Caiano e incoraggiata dal cugino scrittore Moisè Cecconi, mosse decisi passi verso una carriera d’artista. Di famiglia agiata, sin da bambino dimostrò profondo interesse per l’arte, ma a causa delle sopraggiunte difficoltà economiche familiari, sul finire del secolo, non potrà intraprendere studi regolari. Tuttavia poté respirare l’aria dell’Accademia di Belle Arti e della Scuola del Nudo, e qui entrò in contatto con l’opera di Giovanni Fattori, che sarà sempre il suo maestro ideale. Prima ancora che artista, Soffici si fa conoscere quale critico d’arte, inteso a demolire le fame usurpate e a illustrare o valorizzare alcune fra le maggiori personalità dell’impressionismo e postimpressionismo francese, che ebbe modo di conoscere a Parigi già in un primo, lungo soggiorno che si svolse dal 1903 al 1907. Quattro anni che lo videro collaborare, come illustratore, per riviste quali L’Assiette au beurre, e intanto ebbe la possibilità di incontrare artisti emergenti e già affermati come Apollinaire, Picasso e Jacob, e frequentare il mondo vivace che si era formato intorno alla rivista La Plume. Conduceva una vita bohémienne a contatto con il vivace ambiente intellettuale, e intanto manteneva contatti con l’Italia attraverso gli articoli di critica d’arte che inviava al Leonardo, diretto da Papini. In quanto pittore, i suoi primi dipinti si connotano per la pennellata pastosa, tardomacchiaiola, così come da quest’ambito proviene il suo naturalismo che sfuma nei contrasti cromatici, come se la luce pervadesse per intero la retina dell’occhio umano e rendesse un tutt’uno oggetti e figure. Stanti gli studi sull’arte europea e i soggiorni parigini, Soffici conosce gli Impressionisti, Cézanne, Picasso, gli Espressionisti, e già nel 1911 ha superato il naturalismo toscano per una ricerca pittorica più moderna: Natura morta con fruttiera ad esempio, risente in maniera evidente delle regole compositive e formali del Cubismo, mentre La lucernina è vicina all’Espressionismo. Da qui, il passaggio al Futurismo, profondamente toscano con il suo immortalare e scomporre casolari di campagna e nature morte con i tipici fiaschi. Una fase breve, interrotta dalla Grande Guerra che lo vide Tenente di Complemento aggregato allo Stato Maggiore della II Armata.

Simili furono gli esordi di Ottone Rosai, diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Firenze e costretto a lasciare  l’Accademia di Belle Arti dopo l’espulsione per cattiva condotta. Si avvicinò al Futurismo da autodidatta, incoraggiato da Soffici che lo conobbe a Firenze, ma sin da subito s’intuisce come la sua grandezza e sensibilità di pittore risiedano nel naturalismo, leggermente venato di naif, vicino a Marc Chagall e ai Fauves. Soffici lo introdusse negli ambienti interventisti, e nel 1915 Rosai si arruolò volontario dapprima nel Reggimento Granatieri, e poi nei reparti degli Arditi, battendosi con coraggio e meritando ben due Medaglie d’Argento al Valore Militare.

Ottone Rosai, Attesa, 1920

La parentesi della Grande Guerra interrompe forzatamente la loro attività pittorica, che riprenderà soltanto nei primi anni Venti. Con il ritorno alla vita civile, e il conseguente disagio che lo accomunava ad altre decine di migliaia di suoi ex commilitoni, Soffici avvertì la necessità di un “ritorno all’ordine”, che non fosse soltanto artistico ma anche politico. Da quest’ultimo punto di vista, simpatizzò con il Fascismo, collaborando a testate quali L’Italiano, con articoli di cultura e critica d’arte. Da un punto di vista pittorico, si allontana dalle derive astratte dell’avanguardia, per ispirarsi alla lezione antica del Trecento toscano. Da parte sua, a ben guardare, Rosai da quell’ordine non si è mai allontanato. Evidente sin dai suoi esordi il richiamo alla pittura dei Primitivi toscani, leggermente ammodernati perché calati un’aura che non è più mistica, ma, si potrebbe dire, metafisica ed esistenziale. I luoghi di Rosai sono prima di tutto luoghi dell’anima, sospesi in atmosfere crepuscolari, non contemplative ma di riflessione, piccoli rifugi di pace dal caso che attraversava l’Europa. Atmosfere così intime nelle quali è facile scorgere il senso di verità delle considerazioni di Curzio Malaparte a proposito della Toscana come “casa”, nelle pagine di Maledetti Toscani.

Ottone Rosai, I fidanzati, 1934

Colori magri, stesi con parsimonia, per non appesantire la tela. Colori leggeri come le viole di Santa Fina sulla torre di San Gimignano, e per tale ragione già nei primi anni Venti, la sua pittura si identifica in quell’aura di poetica sospensione che la avvolge; Rosai è pittore dell’uomo, anche quando dipinge paesaggi. I suoi soggetti più ricorrenti sono angoli di quartiere, stradine umide e buie, piccoli gruppi di persone (raramente più di tre); e quand’anche frequenta il paesaggio, lo fa con atmosfere crepuscolari come le poesie di Pascoli, e i suoi colori sono suggestivi come le “voci di tenebra azzurra” del poeta romagnolo. E ancora, osservando quelle figure che procedono lentamente su quelle stradine di campagna incassate fra alti muri, salgono alla mente i versi di Montale, densi di considerazione sulla durezza dell’esistenza quotidiana: E andando nel sole che abbaglia // sentire con triste meraviglia // com’è tutta la vita e il suo travaglio //  in questo seguitare una muraglia // che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Se Rosai ha atmosfere autunnali, Soffici porta sulla tela il tepore della primavera, e un certo odore salmastro nelle marine versiliesi degli ultimi anni. Osservando le sue tele, si apprezza l’ampia e pastosa pennellata che dà vita a case, cipressi, olivi e stradine di campagna sembra d’immergersi in una prosa di Idilio Dell’Era, anch’egli cantore di una Toscana agreste, al limite dell’arcaico, dove le radici dell’uomo trovano un fondamento e una motivazione; la natura silenziosa che accoglie l’esistenza, e la rende grata con la bellezza di cui la circonda. Ne è prova l’armonia delle case coloniche immerse fra i cipressi e circondate da oliveti, le marine assolate, elementi che ritornano nell’opera sofficiana, rassicuranti presenze all’apparenza immutabili.

Ardengo Soffici, Il ritratto di mia suocera, 1921

E ancora, i volti di Rosai ricordano maschere, le cui espressioni senza tempo rimandano a una mitologia arcaica; i suoi sono i personaggi della Firenze popolare, quella delle bettole e dei chiassini, degli ambulanti e degli artigiani, dove la miseria quotidiana è vissuta con estrema dignità. Soffici ha un approccio decisamente naturalista; la sua ritrattistica si rifà alla tradizione della Macchia: il Ritratto di mia suocera (1921) ha similitudini con La cugina Argia (1860) di Giovanni Fattori, e il volgersi di nuovo al suo primo maestro non potrebbe meglio esemplificare il “ritorno all’ordine” del primo dopoguerra. La pittura di Rosai possiede sicuramente una maggior carica umana rispetto a quella di Soffici, lo stesso Rosai rimproverò aspramente il collega in un pamphlet del 1931, accusando di accademismo e insensibilità. Una polemica che ruppe diciotto anni di amicizia.

Al di là delle loro polemiche personali, giova notare come dagli anni Venti fino alla fine delle loro carriere, né Soffici né Rosai abbiano conosciute altre fasi stilistiche, poiché avevano finalmente trovato il loro equilibrio, un po’ come il Goethe del classicismo maturo.

Ad arricchire la mostra, un’ampia selezione di fotografie, prime edizioni di volumi di Soffici e Rosai, loro articoli su Lacerba, La Voce, Il Bargello, lettere originali, a tracciare un completo ritratto intellettuale di queste due importanti figure dell’arte italiana.

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