Nell’ambito del 150° anniversario dei rapporti bilaterali fra Italia e Giappone, le Scuderie del Quirinale ospitano, fino al 29 luglio, la retrospettiva dedicata a Hiroshige. Visioni dal Giappone, incentrata su una selezione di circa 230 opere tra silografie policrome e dipinti su rotolo. Una mostra prodotta dal Comune di Bologna e MondoMostre Skira, in collaborazione con il Museum of Fine Arts di Boston.
ROMA. Onde marine, pappagalli dal variopinto piumaggio, fiori di ciliegio, cieli azzurri e montagne imponenti. Sono gli elementi dell’universo pittorico di Utagawa Hiroshige (1797-1858), considerato, con Hokusai e Kuniyoshi, uno dei maestri dell’ukiyo-e, il popolare genere di stampe a colori che era molto diffuso nelle classi più umili della popolazione, che non potevano permettersi di acquistare i ben più costosi dipinti, e quindi ricorrevano a questo genere di prodotti “seriali”. Tuttavia, non per questo mancava la qualità artistica, né mancavano i grandi maestri. La tradizione dell’ukiyo-e si suddivide in due periodi storici: il macro-periodo Edo, che comprende le origini del tardo XVI secolo e arriva al 1867; e il periodo Meiji, dal 1868 al 1912. Per ragioni anagrafiche, gli ukiyo-e di Hiroshige appartengono al periodo Edo; in quella prima metà del XIX secolo, il Giappone era ancora un Paese feudale dominato dalle potenti caste dei daimy¯ o (grandi feudatari) e dei samurai al loro servizio, e organizzato secondo un’economia prettamente rurale, così come di fatto lo era la società. Fedele alla tradizione, Hiroshige realizzò centinaia di stampe aventi per soggetto paesaggi e vedute del Paese, colti in differenti stagioni e in differenti condizioni atmosferiche, in modo da poter utilizzare una più vasta gamma di colori e poter creare un maggior numero di effetti visivi.
La funzione degli ukiyo-e non era però soltanto meramente decorativa: in un’epoca in cui il Giappone soffriva la divisione in feudi e l’autorità dell’Imperatore faticava ad affermarsi completamente, era necessario creare nel popolo un senso di appartenenza nazionale; come la statuaria della Magna Grecia era servita a propugnare i valori della filosofia pitagorica (alla quale si rifacevano i governi aristocratici delle sue città), e come, secoli più tardi gli affreschi delle chiese erano la “Biblia pauperorum” che diffondeva nel popolo il messaggio cristiano, gli ukiyo contribuivano a creare, nell’immaginario delle masse popolari che non avevano modo di viaggiare e conoscere il paese, un’iconografia nazionale che si traduceva in un senso di appartenenza che andava oltre la dimensione feudale. A tutto vantaggio della figura imperiale, che appunto nell’Era Meiji riuscì a raggiungere l’obiettivo di rompere la supremazia del ceto conservatore dei daimy¯ o e a costruire un moderno Stato industrializzato, aperto all’Occidente. Gli ukiyo-e ebbero la loro parte in questo processo di formazione politica, anche se oggi sono apprezzati per la loro raffinatezza estetica.
Hiroshige, pur non disdegnando soggetti antropomorfi, come attori, guerrieri o cortigiane, concentrò la sua produzione sul paesaggio e i suoi elementi, soprattutto naturali: la mostra romana permette così di apprezzare scorci della capitale amministrativa Edo e della capitale imperiale Kyoto, le stazioni di posta del “cammino sacro” fra le due città, il Monte Fuji, e ancora fiori, pesci, giardini e vedute marine.
Il suo stile si avvaleva essenzialmente di campiture piatte di colore e di giochi di linee curve e spezzate, che conferiscono alle scene un’elegante armonia non priva di un certo dinamismo, in particolare nelle scene marine, con le onde che sembrano voler infrangersi sull’osservatore. Hiroshige ci restituisce il paesaggio giapponese in tutto lo splendore dei suoi colori, lasciandone intuire il profumo dei fiori, lo stormire del vento, il mormorio delle acque, come in una poesia di Basho. Anche la figura umana è oggetto di un attento studio estetico, non tanto nei volti, spesso impersonali e quasi caricaturali, bensì nella resa delle vesti tradizionali, con i loro morivi geometrici o floreali. Le vedute delle città non sono meno coinvolgenti, e raggiungono l’apice nelle ultime opere prima della scomparsa, dedicate alla città di Edo.
Per buona parte della sua carriera si attenne al formato orizzontale, ma all’inizio degli anni Cinquanta del secolo, ottenne una commissione di dipinti su tela da parte del feudatario di Tendo¯, che li volle in verticale. L’esperienza piacque a Hiroshige, che da allora preferì quel formato, perché si accorse che gli permetteva una resa prospettica più ardita e impattante agli occhi dell’osservatore. Ed è nel formato verticale che Hiroshige sviluppa le vedute di Edo, amplificando gli effetti della prospettiva e ingrandendo i soggetti in primo piano tramite l’uso di lenti ottiche e della “lanterna magica”, un po’ sullo stile dei vedutisti veneziani del Settecento. Ne risultavano immagini particolarmente vivaci, quasi cinematografiche, particolarmente all’avanguardia per l’epoca.
Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, l’Era Meiji vide il Giappone al centro di una vastissimo programma di riforme e di modernizzazione industriale, il Paese uscì dal suo isolamento e presero avvio scambi commerciali e culturali con l’Occidente; il mondo dell’arte non rimase indifferente, e la tradizione dell’ukiyo-e fu attentamente studiata dai pittori dell’epoca, non tanto per la tecnica incisoria, quanto per le impostazioni prospettiche che in Europa erano innovative. Vincent van Gogh, ma anche Henri de Toulouse-Lautrec, fino ai Macchiaioli toscani come Cristiano Banti, furono a più riprese ispirati dalle opere di Hiroshige, mentre, grazie alla commercializzazione di fotografie e incisioni, le “vedute giapponesi” conobbero uno straordinario successo fra il pubblico, e a Parigi fiorì un vasto mercato dedicato al “giapponismo”.
Hiroshige, da parte sua, fu una sorta di maestro per Lautrec, Degas, van Gogh, e contribuì all’evoluzione dell’arte europea. Per questo, a oltre un secolo e mezzo dalla scomparsa, è giusto riscoprirne l’opera, che, a volte senza accorgercene, filtrata da esperienze artistiche successive, ritroviamo in tanti quadri che fanno ormai parte del nostro immaginario. A impreziosire la mostra, un sobrio allestimento lineare, con le opere disposte in lunghe sequenze che danno l’impressione di un racconto narrativo, e una pannellatura blu che riprende quello che è il colore dominante in Hiroshige, e richiama i suoi cieli e i suoi vasti mari.
Si esce dalle Scuderie con la consapevolezza di aver conosciuto un lato raffinato della cultura giapponese.
(In copertina: Utagawa Hiroshige, Hakone Vista del lago, 1833-34, Museum of Fine Arts, Boston)
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