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18 Dic

Il tempo in posa, Pino Ninfa fotografa Palermo

Da quando è nata, la fotografia è stata una delle testimoni più dirette ed efficaci della storia; sia essa minima, intima, personale, che quella con la S maiuscola. Verso la fine degli anni ’80 Peter Gabriel (compositore, musicista, fondatore dei Genesis e attivista per i diritti umani) auspicava che chiunque avesse la possibilità di utilizzare una macchina fotografica, oppure una cinepresa, per dare modo di “avere mille occhi” per raccontare le violazioni perpetrate sui singoli e i popoli. Ora questo “sogno” in qualche modo si è realizzato, avendo la possibilità di utilizzare telefonini sempre più sofisticati, che meno hanno la funzione principale di connettere vocalmente le persone, e più quella di condividere foto e video. Ma tutti sappiamo che l’efficacia del messaggio che una fotografia può dare è data minimamente dal mezzo con cui si scatta, e principalmente da chi dietro la macchina sta.
Di certo una persona che possiede parecchia sensibilità nello scegliere il tempo, il modo e l’inquadratura di uno scatto, è Pino Ninfa. Siciliano d’origine, ma arrivato a Milano a 17 anni, Pino è diventato con gli anni uno dei più apprezzati fotografi in campo musicale e sociale. Nel primo caso è stato reporter ufficiale dell’Heineken Jammin Festival dal 1998 al 2011, ha seguito diverse edizioni di Umbria Jazz, e gli spettacoli Blue Note dalla sua apertura fino al 2004). Questo gli ha permesso di scattare foto a tutti i più importanti jazzisti (e non) italiani e stranieri, e di sviluppare progetti multimediali con diversi musicisti fra i quali Danilo Rea, Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, Franco D’Andrea, Stefano Bollani e molti altri.
Nel campo sociale ha sviluppato progetti sul territorio nazionale e internazionale che l’hanno portato a lavorare con diverse ONG, fra cui Emergency, Amani, CBM Italia, Cesvi e Prosolidar.
Negli ultimi anni, oltre a girare il mondo, molti dei suoi scatti sono diventati protagonisti di mostre, come quella che si sta svolgendo a Palermo, dedicata alla città, che si chiuderà il prossimo 24 dicembre (Il tempo in posa, Palermo una storia da raccontare: mostra nell’aula rossa del teatro Politeama, in occasione dei 60 anni dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, per Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018).

© Pino Ninfa, Palazzo De Seta

In questo periodo è in corso una tua mostra a Palermo, ci puoi spiegare il tema delle foto che sono esposte?
«Il progetto fotografico dedicato a Palermo ha come obiettivo di raccontare una storia insita nella città, e di indagare attraverso la fotografia, il rapporto spazio-tempo all’interno di luoghi e architetture storiche, insieme a luoghi che determinano tendenze culturali attuali ospitando arte contemporanea o punti di incontro fra i giovani e non, passando naturalmente per spazi come i teatri che ospitano la musica.
Un tipo di indagine che chiarisce ancora una volta come Palermo ha innata nel suo Dna questi percorsi che l’hanno portata a essere scelta come Capitale della Cultura Italiana per il 2018. Le fotografie cercano di cogliere momenti di attesa, il tempo tra due azioni, due luoghi, due tempi, quei momenti di passaggio fra due mondi, due coscienze. Questo scontro fra universi, queste combinazioni magiche così care ai surrealisti, fanno di questi spazi mentali e fisici un luogo metafisico, nel quale la quiete apparente difficilmente cela la potenza dell’evocazione poetica.
Livelli di lettura della realtà e del mondo artistico che aprono le porte a un viaggio inedito in città sulle tracce della storia e della memoria in collegamento col presente».

I temi della tua fotografia sono principalmente legati alla musica (soprattutto jazz), al reportage e alla cooperazione sociale. Quali sono stati i percorsi che ti hanno portato verso questi temi?
«
Nasco prima come ascoltatore di musica e fruitore di arte che come artista. Quindi i miei ascolti (la musica dal jazz alla classica) e le mie passioni (dalla lettura al viaggio), hanno determinato l’incontro con i temi che hai descritto. Credo infine che sia importante in un lavoro come il mio occuparsi anche di persone meno fortunate di noi e di salvaguardia ambientale. La fotografia può dare contributi importanti in questi ambiti».

Scorrendo il tuo book ci si imbatte in foto dei più grandi nomi del jazz, fotografati on stage e nel backstage, cosa ha significato per te entrare in contatto con loro?
«
Poter avere la possibilità di incontrare dal vivo personaggi straordinari e raccontarli sul piano della rappresentazione fotografica, per catturarne se possibile un aspetto della personalità».

Ci puoi raccontare qualche aneddoto legato alla tua professione di fotografo nell’ambito del jazz?
«Naturalmente ne ho molti, fra questi un ritratto fatto a Joe Lovano in Calabria a Roccella Jonica lungo la linea ferroviaria. Come da informazioni ricevute dai responsabili della stazione, i treni in quella fascia oraria non sarebbero passati. Invece all’improvviso ne arrivò uno. Furono attimi di panico ma per fortuna riuscimmo a non essere travolti e a rifare la foto malgrado la riluttanza di Lovano nel rimettersi sul binario».

L’anno scorso hai pubblicato un libro dove le tue fotografie erano accompagnate da alcuni racconti legate a esse. Quanto è stato facile o difficile la scelta di cosa pubblicare?
«Direi che non è stato difficile bensì problematico, scegliere una storia piuttosto che un’altra. Poi ho proceduto per affetto ed empatia con le immagini che avevo selezionato. Così è nato il libro dove sostanzialmente racconto cosa c’è dietro il fare fotografie».

L’altro aspetto della tua produzione è legata alla fotografia di viaggio accanto a molte ONG e associazioni. Molti sono stati i paesi che hai visitato, cosa ci si porta a casa quando si torna?
«Che i miei problemi sono poca cosa, rispetto a chi davvero ha poco o nulla, o che è stato colpito da forme di malattia gravi. Così come rispettare l’ambiente dovrebbe essere un tema da ricordare continuamente per cercare di vivere meglio nelle nostre città».

In questi reportage molto spesso ti sei trovato davanti a una povertà estrema o a situazioni sanitarie particolari. Qual è il limite da non superare per un fotografo in quelle situazioni?
«Sono molti i paesi visitati e direi tutti in situazioni di estrema povertà. Colpisce come le grandi città, come per esempio in Sudafrica e in Brasile, stati non considerati poveri, dietro la facciata di ricchezza del ceto ricco/benestante ospitino immense periferie degradate dove il vivere raggiunge limiti estremi di sopravvivenza.
Fotografare chi non ha niente o soffre vuol dire riuscire a incontrarli con la macchina fotografica, se si riesce. Questo il compito di un fotografo».

Ti sei mai trovato in difficoltà?
«A lavorare negli Slum di Nairobi».

Tu hai lasciato molto giovane la città in cui sei nato. Qual era il sogno che avevi e l’hai realizzato?
«Sono venuto da Catania a Milano. Inizialmente non avevo una idea chiara su cosa fare, la fotografia è arrivata dopo altre esperienze nel campo dell’insegnamento».

Quali saranno i prossimi progetti che ti vedranno protagonista?
«Vorrei ritornare a Cuba e in India».

 

In copertina:  © Pino Ninfa, Vucciria

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