Ci sono stati anni della mia gioventù, quelli in cui la propria cultura musicale inizia a poggiare i primi piani della propria “casa” (le fondamenta si piantano prima, in tenera età!), che far intuire di ascoltare Lucio Battisti pareva un sacrilegio, e ti faceva passare per un traditore della causa. Poi a quale causa si alludesse poco importava, bisognava rimanere nel proprio seminato, essere sicuri sotto la propria “bandiera”, marchiando qualsiasi cosa. Dopo tanti anni si è scoperto che quello scheletro nell’armadio l’avevamo in tanti, e che quelle canzoni che parevano “leggere” in fondo raccontavano qualcosa anche ai più “arrabbiati”.
Battisti è stato un artista atipico: non aveva una voce straordinaria (anche se con il passare degli anni migliorò la tecnica vocale), non amava esibirsi in pubblico, non desiderava essere ospite in televisione e concedere interviste, decidendo all’apice del successo di far “parlare” i propri dischi e non il “personaggio Lucio”. Insomma un musicista e cantante complesso, che però è diventato un’icona e un punto di riferimento (a volte proprio per le sue scelte artistiche, di carriera e di vita), anche dopo la sua morte. Ad aiutarci a capire la vera essenza di Battisti, il giornalista e scrittore Donato Zoppo ha pubblicato, per l’Hoepli, il libro Il nostro caro Lucio, dove pazientemente e scrupolosamente, ripercorre la parabola artistica del cantautore di Poggio Bustone; affidandosi spesso alle dichiarazioni di chi l’ha conosciuto o ha lavorato con lui. Abbiamo così voluto intervistare Zoppo per capire meglio l’essenza del libro.
Iniziamo dal principio: cosa è stato Battisti per la musica italiana?
«Dopo Modugno e i cantautori della prima generazione, Battisti ha compiuto la seconda grande rivoluzione della musica leggera del nostro Paese. Ha definitivamente rotto con la tradizione melodrammatica – intonazione perfetta e affilata, declamazione enfatica del testo, temi sentimentali, retorici e morigerati – importando in Italia sonorità angloamericane, dal rhythm & blues al folk-rock, con un modo di fare mutuato direttamente da Bob Dylan. Battisti infatti ha dimostrato che si può fare musica di successo senza abdicare alla ricerca e soprattutto orientandosi con la bussola dell’emozione, che nella sua poetica ha sempre prevalso sull’adesione al canone, sul rispetto acritico della forma. Inoltre Battisti, inaugurato il nuovo corso con Pasquale Panella a metà anni ’80, è stato un faro di creatività e coraggio: pochi hanno avuto l’ardire di distruggere il proprio mito in nome della libertà artistica, lavorando peraltro in coerente isolamento».
Come sei arrivato a decidere di scrivere un libro su Battisti? e nella scrittura ti sei posto più come biografo o come narratore?
«Battisti era un mio pallino da qualche anno: nel 2011 ho scritto Amore libertà e censura. Il 1971 di Lucio Battisti, una monografia tecnica, molto analitica, sull’esperienza del cult-album Amore e non amore (la copertina, i lunghi titoli, il rapporto con il rock e il progressive, la censura) e in senso più ampio sul 1971 di Battisti. Mi è rimasta la voglia di ripartire da quella cellula, di ampliarla, di raccontare tutta la vicenda battistiana: la proposta di Hoepli in occasione del ventennale della scomparsa di Lucio era dunque irrifiutabile. Non mi sono posto come biografo strictu sensu, ma come narratore, infatti ho cercato di sottolineare le scelte, le motivazioni, gli snodi, le svolte che hanno caratterizzato una vicenda artistica così importante ma anche enigmatica, quella di Battisti. Quello che mi interessa è offrire al lettore una narrazione attendibile, con un punto di vista personale: quello di un divulgatore di cose rock, di un osservatore attento ma soprattutto appassionato, di un ammiratore sincero dell’arte battistiana».
Il libro ripercorre in modo attento e puntuale la sua carriera, avvalendosi anche delle parole dei vari personaggi che hanno collaborato con lui. Quale è stata la difficoltà di legare tutte queste diverse fonti.
«Nessuna difficoltà, anzi il contrario: le cose si sono tutte incasellate con grande naturalezza, probabilmente anche perchè avevo le idee abbastanza chiare su come impostare e sviluppare tutta la narrazione. Se hai notato ci sono alcuni concetti che tornano frequentemente nelle dichiarazioni di tutti gli intervistati, da Roby Matano a Chris Porter, da Alberto Radius a Phil Palmer passando per Pietruccio Montalbetti, Gianni Dall’Aglio e Robin Smith: la profonda devozione che Battisti aveva per la musica, il carattere schivo ma non così scontroso come si pensa, la meticolosa e appassionata professionalità, il cercare sempre, costantemente, l’autenticità nella musica, puntando a toccare il cuore e la sfera emotiva dell’ascoltatore».
Prima la sua volontaria “ritirata” da concerti e esposizione mediatica, poi la morte prematura, e ancora in seguito la volontà dei famigliari di non concedere lo sfruttamento del repertorio e dell’immagine di Lucio: tutto questo ha giovato oppure ha portato Battisti oggi a essere un artista la cui memoria sta scomparendo?
«Se mettiamo al centro di tutto la filosofia artistica di Battisti, in un primo momento la sua assenza è stata decisiva per lo sviluppo della sua poetica. Anzi proprio l’essere alieno alla promozione, il centellinare al massimo le apparizioni, il rifiutare la performance dal vivo, tutto ciò ha determinato una concentrazione ancora più strenua sul fare musica in studio, portando Battisti al perfezionismo che conosciamo. È come se avesse protetto da tutte le possibili distrazioni il suo obiettivo principale: fare ottima musica, emozionante e sincera, consegnandola al disco, unico e assoluto orizzonte artistico. Ancora oggi gli eredi tutelano questa forma mentis, tuttavia ogni tanto è come se emergesse un approccio “patologico“, eccessivo, privo della naturalezza con la quale Battisti viveva la sua sostanziale estraneità al carrozzone mediatico.
Con il passare degli anni, soprattutto nel ventennio successivo alla sua morte e ancora di più negli ultimi tempi, caratterizzati dall’avvento del download prima e dello streaming dopo, la politica di protezionismo degli eredi ha annebbiato il mito battistiano: se pensi che l’assenza da Spotify e iTunes comporta che una larga fetta di pubblico sia esclusa dall’ascolto battistiano, allora si percepisce in maniera più chiara la situazione. Premesso che comprare e ascoltare un cd o un vinile può avere il sapore di un gesto rivoluzionario ma è anche una pratica da invogliare e caldeggiare, l’assenza battistiana nell’universo del digitale – così come le scelte restrittive su liberatorie per pubblicità, colonne sonore, eventi etc. – rischia seriamente di far annebbiare non solo il mito, ma anche la memoria di uno dei più grandi artisti della cultura popolare italiana».
Tre sono state le “ere” che Battisti ha percorso: prima del sodalizio con Mogol, gli anni d’oro con il paroliere milanese, e l’era Valenzia-Panella. Il libro si sofferma soprattutto su quella di mezzo, ma quanto gli ultimi lavori di Battisti sono fondamentali per l’accrescimento della musica italiana?
«Ho concesso maggiore spazio all’epoca Mogol perchè è in quella che Battisti sviluppa la propria personalità, struttura un metodo compositivo, costruisce e definisce una forma mentis che sarà costante nell’arco della sua luga carriera. Da parte mia nessuna preferenza per l’uno o l’altro Battisti. La sua musica parte dagli anni ’60 e arriva al 1998 senza categorie, etichette o ere geologiche pre-Panella o post-Mogol… Esiste un solo Battisti, all’interno del quale c’è stata una convivenza di moltissime anime e direzioni. È una cosa assolutamente affascinante, ancora oggi.
Da Don Giovanni a Hegel, ma menzionando anche la “prova generale” di E già, il primo disco senza Mogol e con Velezia, tutto il Battisti dagli anni ’80 in avanti è un esempio di straordinaria audacia artistica. Con un disco come L’apparenza, Battisti non ha avuto il timore di ribaltare una metodologia consolidata, musicando i testi di Panella scritti in precedenza: un gesto radicale rispetto al canzoniere mogolbattistiano, nel quale le parole hanno sempre visto la luce in funzione della musica, e mai viceversa. Ma i grandi, veri artisti operano così, per costruzioni, distruzioni e ricostruzioni, fondano e rifondano continuamente.
Non bisogna negare però che ci sono dei limiti in questi dischi, personalmente li rinvengo soprattutto in quello che Massimo Del Papa aveva chiamato “autismo artistico”. Battisti non dialogava più, era concentrato su se stesso, era finita da un pezzo l’epoca dei grandi Lp anni ’70 che venivano costruito in studio grazie a una progressiva dialettica con i musicisti: gli album bianchi erano il parto di una mente lucidissima e aggiornata, ma probabilmente troppo concentrata su se stessa per entrare ancora una volta nel cuore del pubblico come quindici anni prima. Ed era un vero peccato, perchè il genio melodico era ancora lì, intatto, per niente prosciugato o stanco».
Battisti è stato un musicista e artista atipico per i tempi che ha percorso. Non amava farsi vedere in pubblico e in televisione. Scrivendo il libro sei riuscito a capire se fosse paura, timidezza o qualcos’altro?
«Credo che le motivazioni della sua ritrosia siano state molteplici. In primo luogo il carattere. In fin dei conti Battisti era un ragazzo di spiccata riservatezza, è pur vero che si era fatto le ossa come chitarrista da night, ma la sua indole era ombrosa, e con il passare degli anni andò aumentando. Dunque di base c’era un temperamento restio al protagonismo, ma questo suo vivere nascosto era favorito anche dal successo commerciale: Mogol gli aveva consigliato spesso di riservare a pochissime occasioni le apparizioni pubbliche – consiglio che lui seguiva con estrema facilità… – visto che i dischi si vendevano e non era necessario muoversi alla ricerca di una continua esposizione mediatica, anzi il mito battistiano si fondava proprio sull’assenza. Dove gli altri sgomitavano per apparire, lui pian piano si ritraeva, senza accusare il colpo, anzi centrando ogni volta il bersaglio delle classifiche. È stato unico anche in questo.
Non credo si trattasse di marketing, ma di consapevolezza: Battisti è stato uno dei pochi, se non l’unico, a conoscere le regole dello show business e a dominarle a suo favore. Una cosa che mi ha colpito, nella rilettura delle interviste da lui rilasciate dalla seconda metà degli anni ’60, era la pochezza, la scarsa consistenza delle domande che gli venivano fatte: per uno come lui, così devoto alla musica, così rigoroso nella sua vicenda professionale, così verticale nell’approfondimento di qualsiasi materia, non era semplice dover far fronte a domande sul fidanzamento, sul foulard, sui capelli ricci, sull’impegno e il disimpegno etc. Anche questo provincialismo del giornalismo musicale italiano contribuì ad accrescere la sua disaffezione. Non è un caso che la sua importante intervista su Anima latina alla fine del 1974 fu rilasciata a Renato Marengo, giornalista ma anche produttore e addetto ai lavori, una figura “alla pari” con cui si poteva parlare di musica, non di questioni secondarie, di contorno».
Battisti non si è mai professato seguace di una fede politica, tanto da essere additato come fascista per il suo disimpegno negli anni in cui veniva richiesto un preciso schieramento. Poi in effetti le “prove” contro di lui si sono sempre basate portando come esempio i testi scritti da Mogol. Sta di fatto che quest’aspetto l’ha allontanato da una certa mitizzazione che altri artisti hanno avuto. Ma a oggi Battisti risente ancora di questo ostracismo, e se mi posso permettere di domandare, dalle tue ricerche quanto poteva essere reale la sua appartenenza alla destra?
«Intanto è vero che, nonostante oggi sia pacifico che l’appartenenza a destra era una leggenda metropolitana o comunque la conseguenza di una forte polarizzazione politica degli anni ’70, persiste ancora un certo ostracismo. Fa parte di un nervo scoperto nella cultura italiana, legato al delicatissimo panorama degli anni di piombo, ancora caldi. Credo che ciò sia dovuto anche a due ulteriori motivi: Battisti non ha mai voluto smentire questa accusa, un certo milieu politico-culturale, quello della destra extraparlamentare (e della musica alternativa che ne era espressione), si è appropriato della visione di un Battisti destrorso in chiave simbolica e identitaria.
In realtà Battisti non era di destra nella stessa misura in cui non era di sinistra: per un musicista talmente immerso nel proprio lavoro da escludere tutto quello che poteva essere un ostacolo, una deviazione, una distrazione, la politica non aveva alcuna rilevanza. Difficile da accettare, lo riconosco, ma lui era così, e in un periodo in cui alla musica si chiedeva tanto – forse anche troppo – e in particolare una risposta, una connotazione politica, una espressione identitaria, non appartenere al blocco culturalmente egemone significava ipso iure far parte di quello contrapposto. Aggiungo che nel 1975 Mogol e Battisti tentarono un avvicinamento al mondo della sinistra extraparlamentare avviando un dialogo con Re Nudo, allo scopo di sdoganare Battisti e di imbastire un tour con il Volo negli ambienti più politicizzati: la cosa restò lettera morta, ma fu un tentativo esplorativo di notevole significato».
Battisti ha lasciato eredi? Quali?
«Non credo che Battisti abbia lasciato eredi. È una domanda che metterebbe in difficoltà chiunque, ed è la variante battistiana della domanda che mi veniva sempre rivolta alla fine delle interviste su un mio precedente libro dedicato agli Area. Personalità o gruppi così unici, così determinanti nell’imprimere svolte musicali e artistiche, difficilmente lasciano eredi. Al tempo stesso Battisti ha avuto e sicuramente avrà ancora schiere di imitatori più o meno appassionati, più o meno devoti. Dal Baglioni di Strada facendo a Colapesce, da Vasco e De Gregori (dichiarati amanti di Lucio) ai vari Dente, Calcutta, Verdena, Lombroso, Battisti ha ammiratori di ogni estrazione ed età. Andando ancora di più sul generale, è bello e divertente spulciare nei canzonieri di centinaia di artisti italiani e ritrovare influenze battistiane più o meno celate, più o meno consapevoli. I grandi fanno amministrare così il loro lascito».
Battisti prima di morire stava lavorando a un nuovo album. Esiste veramente? E se c’è, cosa si sa del contenuto e con chi l’avrebbe firmato?
«Questo album pare esista ma non l’ha ascoltato nessuno credo. Battisti aveva avviato una trattativa con Gasparini della BMG, purtroppo arenata per la diffidenza da parte del musicista, il quale alla richiesta della dirigenza BMG di ascoltare il lavoro, replicò in modo secco troncando ogni dialogo. Successivamente fu Gasparini a riaprire le trattative, ma Lucio si ammalò gravemente fino a morire. Tutto ciò, stando al clamoroso racconto di Michele Bovi rivelato proprio nelle scorse settimane in occasione della presentazione del mio libro, avvenne tra la primavera e l’estate del 1998, ma mai nessuno ha ascoltato quel disco, al quale peraltro Panella non ha mai lavorato. Resta il mistero su chi sia l’autore dei testi».
Quale altro libro hai in mente e in preparazione? E se lo puoi confessare: di quale artista non ti sei mai occupato e ti piacerebbe farlo?
«In realtà dovrei fermarmi un po’ e riposare, ma il grafomane incallito che è in me – e che domina tutto il mio corpaccione – mi ha già imposto un nuovo calendario di lavoro… Ho appena cominciato un testo con il filosofo del pop Claudio Sottocornola, un brillante intellettuale bergamasco col quale collaboro da anni, e sarà un testo di sintesi delle sue attività a cavallo tra ermeneutica, musica leggera, storia, costume e società. È un lavoro al quale tengo molto.
Ci sono due artisti in particolare che inseguo da anni e sui quali prima o poi mi soffermerò: Carlos Santana e Van Morrison. Chissà se un giorno riuscirò a scrivere due belle biografie su di loro. E chissà se un giorno riuscirò a scrivere su artisti non musicali a me molto cari come Piero Chiara, Laura Mancinelli, Gianni Sassi (che però musicale lo è anche stato) e Totò. Per restare in campo battistiano, lo scopriremo solo vivendo…».
In copertina: Donato Zoppo, foto di Francesca Grispello
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