Palazzo Reale omaggia il pittore a 450 anni dalla scomparsa: 19 opere raccontano una pittura poetica, insieme europea e siciliana. Una mostra prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre Skira, visitabile fino al 2 giugno 2019.

Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1470 ca. Museo Fondazione Culturale Mandralisca, Cefalù (Foto Giulio Archinà)
MILANO. Talento ineffabile eppure ancora oggi per certi versi misterioso: di Antonello da Messina (1430 – 1479) restano soltanto 35 dipinti, così come non molti sono gli episodi noti e utili a ricostruirne la biografia. Nonostante la scarsità di dettagli, di lui resta la sostanza di capolavori che segnano una stagione particolarissima del Rinascimento italiano, quella che fiorì nella Sicilia del Quattrocento. All’epoca, l’isola era ancora un faro di civiltà, vivacissimo polo mercantile strettamente collegato con l’Oriente, così come con l’Europa del Nord. Un ambiente ideale dove maturare una pittura “gattopardesca” intrisa di Sud e di Nord, con la pittura fiamminga (incontrata in Sicilia e approfondita a Napoli durante l’apprendistato nella bottega di Niccolò Antonio) che si affianca con naturalezza alla sicilianità. Ad esempio, quel parapetto appena accennato, che sovente appare nei ritratti di Antonello a creare una barriera fra il soggetto e l’osservatore, pur essendo un elemento fiammingo sembra rispondere a quella necessità di riservatezza venata di sospetto dei popoli meridionali, ma sempre pronta a sciogliersi nella più squisita cortesia. Una Sicilia contraddittoria, che si ritrova negli sguardi mai diretti delle sue figure, spesso con le palpebre in parte abbassate, che richiamano alla memoria il medesimo modo di sogguardare del Principe di Salina. Antonello guarda ai Fiamminghi con una prospettiva artistica di respiro europeo, sulla scia di Federico II; infatti, in quella solare purezza levantina che sa di mandorla e colori a olio, si scopre, a un’attenta lettura, una radice di poetico umanesimo di derivazione federiciana, fatto di osservazione, sobrietà, letteratura, e di cui nel Quattrocento sopravviveva ancora qualcosa sotto figure regnanti quali Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, alla cui corte si trovavano ancora gli ultimi trovatori provenzali, ma soprattutto quei pittori come Enguerrand Quarton e Barthélémy d’Eyck che addolciscono e modernizzano la pittura fiamminga. Da loro, ma anche da autori catalani noti all’epoca in Italia, Antonello trae ispirazione per una personalissima pittura che, con sobrietà di forma e colore, muove emozioni di carattere, diremmo, filosofico e antropologico; cantore di una Sicilia orgogliosa, riservata, ne cattura gli sguardi e i sentimenti attraverso volti che sembrano maschere della tragedia greca. Persino la celeberrima Annunciata possiede i caratteri di una bellezza levantina, lo sguardo in tralice non per debolezza ma per femminile orgoglio, ieratica e carnale insieme. Considerata il capolavoro di Antonello, questa pittura unisce il mistero del Verbo che si materializza sulla terra, con l’iniziale timore che accompagna le fede pronta poi ad abbandonarsi alla grandezza del Creatore, senza rinunciare alla propria carnalità.

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475 ca. The National Gallery, London
Antonello fu un genio dell’Umanesimo pittorico per come è riuscito a fermare sulla tela il mistero dell’essere umano, le insondabilità della sua anima, con particolare attenzione alla terra natia. Quel suo rifiuto di recarsi a Milano su invito di Galeazzo Maria Sforza, quel suo lasciare Venezia per fare ritorno in Sicilia, denotano attaccamento, anzi amore e rispetto filiale per quella Sicilia dove finì prematuramente i suoi giorni; non esattamente l’idea verghiana dell’ostrica, ma qualcosa di simile. E una certa idea di naturalismo letterario affiora nei volti di Antonello, che non è pittore monumentale, nonostante apprezzasse gli impianti compositivi di Piero della Francesca, e ne traesse talvolta misurata ispirazione; ineffabile talento nel restituire le immagini “al naturale”; ciò si deve sia a innegabili capacità manuali, sia all’accortezza dell’uso della pittura a olio in sostituzione della tempera; una tecnica antica riscoperta nel Quattrocento dai Fiamminghi e ridiffusa in Europa. L’olio permetteva di ottenere più accurati effetti realistici, sia nei volti sia nella luce, grazie al fatto di poter essere steso in velatura trasparenti, cosa non permessa dalla tempera. In quei volti, risplende ancora oggi la classica bellezza dell’umanità, una bellezza oggi sovente adombrata dall’alienazione che caratterizza la nostra epoca.
La mostra è anche un omaggio a Giovan Battista Cavalcaselle (1819-1897), critico e storico dell’arte, che studio a fondo l’opera di Antonello e ne ricostruì il primo catalogo dell’opera. A lui fece attribuire, alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, il San Girolamo nello studio, sin lì ritenuto opera di scuola fiamminga. A testimoniare questo speciale rapporto fra critico e artista, l’esposizione, a fianco delle opere, di sette taccuini e numerose pagine sciolte di appunti del Cavalcaselle, provenienti dal fondo a lui dedicato e conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.
(In copertina: Antonello da Messina, Annunciata, particolare)
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